La Villa31

La Villa31 è un quartiere fantasma di Buenos Aires . Non esiste su GoogleMaps, si è sviluppato sotto i cavalcavia dell’autostrada, alla fine del porto e vicino alla stazione degli autobus. Le persone che si sono insediate qui, decenni e decenni fa, erano i famosi migranti dei paesi limitrofi arrivati in cerca di fortuna, e non si sono più spostati. Non c’è un piano di urbanizzazione, sulla carta questo quartiere non risulta, eppure qui vivono oggi oltre cinquantacinque mila persone. Il termine “villa” (che qui si pronuncia rigorosamente VISCIA) può essere considerato un po’ l’equivalente della “favela” brasiliana.
La prima sera alla Villa sono andata alla Capilla Virgen del Rosario, dove ho assistito al secondo giorno di “Novades”, è la veglia dei boliviani che rendono omaggio a Santiago. La festa ufficiale è prevista sabato prossimo. Per nove sere c’è la messa di preparazione e adorazione al santo.
Chi mi segue da un po’ sa quanto la Bolivia mi sia rimasta nel cuore, e non faticherete a capire con quanta gioia ho accolto la proposta di conoscere la comunità boliviana prendendo parte a questa celebrazione.

A dire la messa c’era Padre Agustin. E’ un ragazzo di 33 anni, diacono al momento, sempre con il sorriso stampato sulle labbra. Ogni giovane che decide di diventare sacerdote, oggi, deve avere una grande vocazione, e se poi decide di farlo in un quartiere dimenticato come questo beh…sicuramente ha una spinta in più.

Prima di iniziare la messa mi ha presentato agli altri fedeli. Poi, durante l’omelia, ecco che Padre Agustin pronuncia di nuovo il mio nome. “Romina è venuta dall’Italia, e quest’oggi ha deciso di essere qui con noi. Avrebbe potuto scrivere di Messi, oppure raccontare l’arrivo di De Rossi a Buenos Aires. Sarebbe stato più facile per lei, e sicuramente avrebbe guadagnato di più. Ma Romina, nel suo modo di fare giornalismo ha deciso di venire qui, in mezzo a noi, di raccontare le nostre vite, di condividere questo momento con noi. Ha scelto la strada più difficile, non ha avuto paura, e così dobbiamo fare anche noi”.
Tutti mi guardano con occhi pieni di gratitudine, io non so cosa fare, mi limito a sorridere.
Ci sono persone che mi conoscono da una vita, e a volte mi chiedo se sappiano davvero chi io sia. Ed ecco che piombo qui, in questo angolo dimenticato della capitale argentina, ed un ragazzo che sta per diventare prete e con cui ho scambiato a malapena un paio di battute riesce a darmi una scossa dentro, a farmi sentire importante, anzi, a far sentire importante il mio lavoro. Lo guardo e mi chiedo come ha fatto, con una sola frase, a gratificarmi in questo modo. Non so da quanto tempo non sentivo questo tipo di sensazione.

Seduto vicino a me c’era un signore devoto a Santiago. Sono cinquant’anni che ha lasciato la Bolivia per venire in Argentina. A inizio e fine messa mi ha parlato tantissimo, mi piaceva ascoltarlo, i suoi racconti avevano un non so che di irreale.
E’ stato lui a portare la statua di Santiago in questa cappella, è andato a prenderla insieme ad altri due amici, quando era giovane, in un paesino sul confine.
“Ma come avete fatto a portare la statua? Siete andati in macchina?”, gli chiedo.
“No! E chi poteva permettersi la macchina all’epoca. Siamo andati a prenderla in colectivo (autobus ndr), ma abbiamo comprato due posti a sedere per la statua, così nessuno ci poteva dire niente, e l’abbiamo legata bene bene”. Mi fa sorridere l’immagine di questi tre giovani che attraversano il paese per andare a recuperare la statua con l’autobus.
Sono tanti anni adesso che lui è andato via dalla Villa, non ha voluto che i suoi figli crescessero in questo ambiente, troppo alto il rischio di prendere brutte strade. Ma continua a tornare qui per il suo Santiago: “Mia moglie due anni fa ha avuto il cancro alla mano, ha chiesto aiuto a Santiago, e tutto è finito bene, il cancro è sparito”, e mentre parla non schioda gli occhi dalla statua. Ogni giorno lui e sua moglie impiegano due ore, una per andare e una per tornare, per prendere parte alla funzione in queste nove sere di veglia.

La giornata si è conclusa a casa di Blanca, mangiando asado per festeggiare sua sorella che si è laureata in psicologia sociale. E’ una famiglia numerosa quella di Blanca, 7 sorelle e 3 fratelli, dieci figli in tutto, ed ho perso il conto dei nipoti. Ne è uscita fuori una tavolata lunghissima , con una tan quantità di carne alla brace da poter sfamare un esercito. Blanca non ha esitato a invitarmi, “siamo in tanti, siamo abituati ad aiutarci e a condividere, un piatto in più in questa casa c’è e ci sarà sempre”, mi ha detto sorridendo. A fine serata tutta la famiglia ha insistito affinché rimanessi a dormire da loro, non volevano che me ne andassi in un posto dove poi sarei stata sola. Che gran dose di umanità mi è stata iniettata nelle vene quest’oggi, quanti valori che mi sono stati messi sul piatto della vita, quanto bisogno avevo di riviverli così, in maniera tanto genuina. E quanto sarebbe bello che questi valori tornassero anche nel paese da cui sono partita, quell’Italia così chiusa che non conserva più nulla dell’aura e del fascino che qui ancora gli riconoscono.

67260915_10218735050584091_3692933342048550912_o.jpg