UNA GUERRA DI "EROI"

Quando torno a pensare ai miei giorni a Praga, nella mia mente si palesa il volto e lo sguardo di Yevgeiy.

Trentacinque anni, occhi limpidi, viene dall’Ucraina e vive nella capitale ceca da più di sei anni. Ci siamo conosciuti per caso, un pomeriggio, all’interno di un centro in cui accoglievano i profughi. Io che andavo avanti e indietro, di qua e di là, facendo timide domande in inglese, con la paura di disturbare quelle persone stremate da giorni e giorni di viaggio. Lui che si avvicina e mi dice che può aiutarmi traducendo.

Viene dal Donbass, i suoi genitori e i suoi nonni sono ancora lì, lui è in costante contatto con loro. Abbiamo trascorso tanto tempo insieme, io e Yevgeiy,

L’ho visto arrabbiarsi, quando davanti alla mia telecamera lanciava i messaggi contro i russi. Guardava me, i suoi occhi erano pieni di odio, ed io facevo fatica a sostenere quello sguardo.

L’ho visto commuoversi davanti al racconto di una signora appena arrivata alla stazione dei bus. Veniva da un paese a pochi chilometri dal suo. Era un racconto straziante, e Yevgeiy me lo traduceva mantenendo intatto il pathos.

E si è emozionato, più volte, davanti alla solidarietà. Quella solidarietà che si è palesata dinanzi a lui sotto varie forme. Una solidarietà fatta di piccoli gesti. Il suo capo che lo chiama dicendogli che in questi giorni può non andare a lavoro. Una ragazza dello Starbucks che si presenta con un vassoio di caffé per tutti i volontari. Il papà di un suo amico francese che ha deciso di installare i pannelli solari per non essere più dipendente dal gas russo.

“Tutti fanno qualcosa, nel loro piccolo, per mostrare che sono dalla nostra parte, anche solo uscire di casa e sventolare una bandiera della pace. Per me è impagabile questo”, mi ha detto. “Sento di star ricevendo tanto, ho paura che prima o poi mi verrà chiesto il conto”, ha aggiunto. E io gli ho risposto, senza esitare che, per quello che mi riguarda, lui ha già pagato in abbondanza.

Già, continuo a pensare Yevgeiy in questi giorni. A quali siano i suoi sentimenti. Una volta è uscito fuori il discorso che lui ha un problema alla vista (non so quanti gradi gli manchino, fatto sta che usa le lenti), e quindi non ha ricevuto la famosa “chiamata al fronte”. Me lo diceva quasi a mo di alibi preventivo. Ma a mia domanda diretta, su quali siano le sue intenzioni, se voglia rimanere a Praga, a fare da supporto logistico, o se voglia tornare nel suo paese a combattere, non mi ha saputo rispondere. Mi sono pentita all’istante di quella mia domanda così schietta, perché so di averlo messo in difficoltà.

Non posso neanche immaginare quanto sia difficile convivere con questo peso sul groppone: da una parte tu che, dieci anni fa, decidi di lasciare il tuo paese e costruirti una nuova vita in Europa. Ed ecco che adesso, quel tuo stesso paese, ti chiede il sacrificio più grande, e tu non sai se sei disposto a farlo.

Perché poi, in fondo, in tutta questa narrazione, torna prepotente il tema dell’eroe. Dei papà che lasciano i figli e prendono le armi. Dei mariti che accompagnano le loro mogli alla stazione dei treni, e gli danno un ultimo bacio. Dei cantanti e dei campioni dello sport che muoiono sotto i colpi delle bombe. Ma perché bisogna essere eroi per forza?

Per me non c’è nulla di male se uno come lui, in grado di padroneggiare almeno 5 lingue, con le sue competenze, rimanga a dare supporto logistico e legale a 1.500 km dal fronte. Perché ho visto il grande lavoro che sta facendo. L’ho visto prendere per mano le persone, e trovargli un posto dove stare. Lo ha fatto anche a distanza, durante l’unica pausa pranzo che eravamo riusciti a ritagliarci l’ultimo giorno: eravamo seduti al ristorante, davanti a un rombo gigante e ad un polpo grigliato, ma lui aveva il telefono sempre sott’occhio, perché stava mettendo in contatto a Budapest una famiglia disposta ad ospitare una sua coppia di amici, che erano riusciti ad arrivare in Ungheria.

Ecco, per me il suo è un lavoro prezioso, e lo voglio gridare al mondo. Ma i suoi amici di infanzia, i suoi coetanei rimasti in città a combattere, come l’hanno presa questa sua decisione/non decisione? Quanto ci metterebbero ad additarlo come un codardo? E se lo avessero già fatto?

E’ difficile raccontare una guerra, troppo semplice la distinzione tra buoni e cattivi.

Nella foto, in alto, una istantanea della fiumana di gente in Piazza San Venceslao , 30 mila persone ad ascoltare il presidente ucraino Zelens'kyj in collegamento Skype da un bunker di Kiyv.

Poi uno scatto rubato a Yevgeiy , mentre mi racconta il conflitto attraverso Telegram.

A seguire il presidio dei volontari nella stazione degli autobus di Praga, diventato un po’ la mia seconda casa. Ed infine l’immancabile selfie infelice, in una mattina in cui Praga mi si è mostrata nella sua veste più candida.