Una trappola d'ingresso

Una settimana fa ero ancora a Lesbo. Era il mio ultimo giorno, ed avevo deciso di viverlo in solitaria. Troppi input avevo ricevuto, troppi incontri, troppi ruoli interconnessi, troppa carne al fuoco nei giorni precedenti. Avevo bisogno di riflettere, di approcciare a quel luogo in modo… più personale, quasi più intimo. Dandomi il tempo di osservare. E nei momenti in cui voglio osservare, l’atto di fotografare mi aiuta molto. Perché mi consente di mettere a fuoco non solo immagini, ma anche suggestioni. E pensieri.

Anche i piccioni mi sono sembrati imprigionati su questa isola. Si muovono in stormo, facendo un movimento costante. All'inizio ne sono rimasta affascinata, perché partono in picchiata, poi fanno una virata, poi un'altra per tornare al punto di partenza. Nella piazza centrale della città, non distante dal porto. É qui che le persone vengono a portare loro da mangiare, dando vita a questa danza cadenzata. Ma loro le hanno le ali per volare, perché non si liberano dal resto del gruppo, e spiccano il volo per cercare la loro strada?

Quale razza di calamita ha, questo posto, per catturare e tenere in trappola piccioni, migranti, volontari?

Non so cosa succederà nei prossimi mesi. Se davvero riusciranno a chiudere il campo governativo Kara Tepe e ad attrezzarne un altro in un’area impervia dell’isola . Se così fosse sarà un campo ancor più invisibile, lontano dagli occhi degli isolani e dai riflettori del mondo.

E non so se le tante ONG presenti sul territorio dovranno gettare la spugna, o se continueranno, caparbiamente, a mantenere il loro avamposto.

Io ho portato con me un “souvenir” speciale dall’isola. Si tratta di uno zaino, prodotto da Lesvos Solidarity - Safe Passage Bags . E’ realizzato con materiale di riciclo, in particolare con i giubbotti salvagenti che, a lungo, sono stati abbandonati sulle coste di Mitilene.

Mi sono emozionata quando l’ho messo per la prima volta, lunedì, alla ripresa della routine quotidiana. Perché quanto è bello “indossare” un’idea?

Provare per credere!

Nelle foto in alto, io con i miei compagni di avventura, giovani volontari, visionari e pieni di ideali. In quella più grande l’esterno della Ong Mosaik, che dà modo ai richiedenti asilo di lavorare con l’arte. E poi, a lato, i fedeli compagni di viaggio : i tamponi, ne abbiamo fatti a bizzeffe in pochissimi giorni. Infine ecco a voi l’acquisto del cuore, il mio nuovo zaino, non è bellissimo?

Vivere in un'isola

Mi sono sempre chiesta cosa si provi a vivere in un’isola. In un luogo in cui le distanze si accorciano, i tempi si dilatano, e si innesca quel meccanismo per cui, vuoi o non vuoi, ti ritrovi ad essere parte di qualcosa. In questi giorni di permanenza a Lesbo le sto trovando, in un certo senso, delle risposte.

Già all’indomani del mio arrivo, ho iniziato a riconoscere le persone per strada. Mi sono sentita chiamare per nome, sorprendendomi di quanto fosse semplice incrociare i propri passi con quelli degli altri.

Ma è un meccanismo che diventa alienante, quando ti ritrovi chiuso qui per un tempo indefinito, aspettando i tempi di una burocrazia che si diverte a fare il bello e il cattivo tempo. Ci sono persone bloccate su questo lembo di terra da due, tre, quattro anni, in attesa di documenti che si fanno desiderare, risposte che tardano ad arrivare.

Passare anni nell’attesa è qualcosa di terribile. Non si tratta di resilienza, ma è una sorta di annientamento graduale, day by day. Sono tanti i migranti a soffrire di problemi psicologici a Lesbo. Ed imbottirsi di tranquillanti, per molti, è l’unica chiave di sopravvivenza.

Le ascolto le loro storie, lo vedo lo smarrimento nei loro occhi, hanno una voce le loro paure. E io mi sento impotente davanti a ciò.

Come fare a non capirli?

Del resto tutti conosciamo la sensazione di sentirci in trappola, il ricordo del lockdown è ancora ben vivo nella nostra mente (con lo spettro che possa ripiombare da un momento all’altro). Eppure ha un inizio, una fine, ed una marea di escamotage per cercare di combatterlo. Qui invece no, e come se la clessidra avesse esaurito la sabbia, il tempo avesse smesso di scorrere. Un limbo. Dentro o fuori, in attesa di conoscere il proprio destino. O magari quella risposta è già arrivata, ma purtroppo non è stata quella tanto agognata.

Lesbo è la porta più ad est d’Europa. Un’isola greca che si trova ad una manciata di chilometri di distanza dalla Turchia.

La vedi, la costa turca, quando rimani a fissare il mare. E’ lì, immobile, a scrutarti nei giorni in cui il cielo è terso. Come se fosse un costante monito. Quasi a dire: da qui sei riuscito a partire, ma non pensare di poter lasciarmi alle spalle, non credere di avercela fatta.

Ed è un triste presagio, purtroppo, perché da queste parti con i rimpatri e con i respingimenti forzati non si scherza mica, anzi... Ma questa è un’altra storia, che non può aprirsi ed esaurirsi in un post su Facebook.

Qui sotto, in ordine sparso, alcune istantanee degli ultimi giorni: un selfie infelice, una foto in posa mal riuscita, ed alcuni scatti con i miei nuovi amici from Lesbo eh sì… qualcuno ha anche quattro zampe!