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SAN DIEGO, HERE WE ARE!

Superare il confine e rientrare negli Stati Uniti, dalla parte opposta però questa volta, dalla California, é stato un gioco da ragazzi.
Mi avevano paventato code lunghissime, controlli severi e una marea di domande a cui rispondere senza esitazioni. Ma niente di tutto ciò. Ho aspettato all'incirca quindici minuti sul lato messicano, il controllo é stato celere, il poliziotto si è limitato a dirmi "Buongiorno!" osservando il mio passaporto italiano. Nessun timbro richiesto, nessun timbro messo. Sono entrata e uscita e rientrata negli States senza far rumore. Ed ecco ora, davanti a me, apparire la California. San Diego per la precisione, al di qua del muro.

Uno dei primi luoghi che ho visitato é stata la Old Town, si tratta del primo insediamento "urbano" sulla costa occidentale degli Stati Uniti. Un piccolo villaggio retrò, con arredi e mezzi d'epoca, tra cui le carrozze. Ci volevano 34 giorni, in carrozza, dal Texas (Sant Antonio) a qui, percorrendo tutto il confine.
Io ce ne ho messi 20, di giorni, ed i confini li ho attraversati più volte, entrando e uscendo dal Messico.
Ho preso tre aerei, due pullman, una dozzina di Uber e non so quanti mezzi pubblici. Ho speso due notti in viaggio, cambiato tre fusi orari, visitato cinque regioni diverse, due stati.

E quando ero sul bus che dalla spiaggia de La Jolla (un’ora a nord di San Diego, dove ho fatto il bagno nell’oceano insieme a foche e leoni marini), mentre dal finestrino l'oceano mi scorreva accanto, con le sue palme altissime e le sue spiagge lunghe, pensavo che sì, ce l’avevo fatta a portare a termine il mio progetto.
Sono partita dal Texas e arrivata in California, ho fatto un coast to coast passando per il Messico, anziché percorrere la Route 66.

Qui a San Diego ho visto il primo tramonto di questo viaggio, un tramonto sull'oceano per giunta.
Nei giorni precedenti non ero mai riuscita, sempre immersa tra riprese, foto, appuntamenti. E poi cerca il modo di tornare a casa, e cerca di rientrare prima che faccia buio.
Sono stati giorni intensi, pesanti, quelli che mi portavo dietro, invece a San Diego sono riuscita a staccare completamente la spina. Ed è stato bello.
Tra Houston e San Diego vince quest'ultimo, se non altro perché è in riva al mare, ed ha un clima invidiabile, con i suoi 20 gradi.
Ho fatto tante cose qui. Il bagno nell'oceano Pacifico, ad esempio, in una mattina nuvolosa e con 18 gradi. Ho capito la differenza tra foca e leone Marino (una ha le orecchie l'altra no). Ho visto la ricchezza e l'estrositá, alternarsi a miseria e desolazione.
Appena arrivata l'impatto é stato brutto per me. Anche perché mi son trovata proprio nei giorni del San Diego Comic-Con, la convention annuale dedicata al mondo delle arti, del cinema e dei fumetti. E quindi per strada tutti erano mascherati dalle peggio cose.
Ed io, che per tre settimane avevo avuto davanti crudezza e dura realtà, mi ritrovavo adesso immersa nel mondo della finzione. Sembrava, un po', la legge del contrappasso.
Poi ci si abitua, come in tutte le cose. Ma di certo non son d'accordo con chi dice: San Diego è Messico. Non ha niente a che vedere con il Messico, eccezion fatta per i ristoranti dei tacos, che te li propongono a prezzi esorbitanti.

In ostello ho conosciuto una ragazza brasiliana,25 anni, dormiva nel letto a castello di fianco a me. Io sopra,lei sotto, era facile parlare, anche se io la guardavo dall’alto.
È qui da sei mesi,lavora vicino alla spiaggia, ma non le piace. Se non altro perché paga 1200 dollari al mese per questo posto letto, e a lavoro ne guadagna 1500 (ma le danno anche da mangiare). Insomma, il tema del caro affitti non riguarda solo gli studenti milanesi... E poi le manca la sua famiglia, e vuole tornare in Brasile. È la prima esperienza che fa da sola, e questo sì, le sta servendo. Vorrebbe fare un dottorato in Europa, suo papà le consiglia Londra, lei propende per Madrid, perché lo spagnolo lo parla, l’inglese no.
Abbiamo parlato molto, ci siamo confrontate. Gli occhi con cui vedi il mondo a 25 anni sono diversi da quelli dei 39enni (ancora per poco!). Mi ha detto che a casa sua soffriva di depressione, e prendeva molti medicinali (non ho indagato quali). Ma in Brasile erano gratis, qui no, e così ha smesso di prenderli. Dice che sta bene, anche se a volte le vengono delle crisi ed inizia a gridare di punto in bianco , senza motivo. Credo che quello della salute mentale sia un tema trasversale, sia per età che per confini geografici, e meriterebbe più attenzione da parte dei nostri governi.

Nella foto, qui sotto, dal basso in senso orario : il mio ingresso (trionfante) negli States dal varco Juvenal. L'incontro ravvicinato con le foche e i leoni marini; l'ingresso di Little Italy (unico momento patriottico del viaggio, tra l'altro é più grande di quella di New York, anche se in pochi lo sanno). A seguire un negozio rigorosamente nostrano (per dare il giusto risalto a tutti!) ; lo skyline con i grattacieli di San Diego visti da Coronado Island e infine la postazione dei bagnini nella spiagge californiane. Ho atteso un po' e sperato di vedere un salvataggio in stile Baywatch, ma niente di fatto, nessuno che ha rischiato di affogare in quel frangente. E niente, toccherà tornarci, per vedere il bagnino in azione!

DA DOVE INIZIA IL MURO, RACCONTI DA TIJUANA

“Da qui inizia la patria”, dice un cartello all’uscita dell’aeroporto. La stessa scritta la vedrò poi, nei giorni seguenti, sparsa nei vari punti della città.
Perché è vero che Tijuana è la porta del Messico, lo è sempre stata. Siamo all’estremo ovest del paese , nella Bassa California, sull’Oceano Pacifico.
La frontiera con gli Stati Uniti la separa da San Diego, con la quale forma un’area metropolitana che vanta oltre 5 milioni di abitanti.

Già, la frontiera. Non è fisica qui.Non ci sono fiumi o montagne a separare uno Stato dall’altro, ma un muro di lastre di ferro ormai arrugginite.

Parte proprio dall’oceano, e poi penetra la terra, dividendola per quasi mille km. Poi la palla passa al fiume, al Rio Grande, ma questa è un’altra storia (vedi le puntate precedenti ndr.!).

I pilastri di ferro si insinuano fino al mare, separando anche le acque di questi due stati. È un simbolo forte, forse il più emblematico in assoluto , di cosa significhi dividere .

La sua fama la precede. Tijuana infatti viene annoverata quale uno tra i posti più pericolosi del Messico. Del resto tra traffico di droga, traffico di merci e traffico di esseri umani beh…c’è l’imbarazzo della scelta.

Io, ironia della sorte , da subito ho percepito un senso di sicurezza misto a tranquillità, a scapito di tutto.

Forse perché quando inizi a guardare questo lato del mondo con i loro occhi, lasciandoti alle spalle il tuo sguardo occidentale così permeato da giudizi,ecco che tutto cambia.
Entri nel ritmo, lo senti tuo. Per prendere i mezzi pubblici, ad esempio, non ci sono le fermate per strada, tu alzi la mano e loro si fermano. Le direzioni sono scritte a caratteri cubitali , a tinte variopinte, e questi furgoncini svettano a tutta velocità. Mi son divertita troppo a prenderli, dopo averne capito il funzionamento . Ogni corsa costava 15 pesos, meno di un euro.
Ma mi son mossa anche camminando, perché qui ho beccato 15 gradi in meno rispetto al Texas e a Monterrey, non era faticoso, ma una continua scoperta, macinare chilometri.
Tijuana è una metropoli, è come tutte le metropoli è in fermento, e piena di gente in movimento.
Tutti si riversano negli incroci, con una particolarità oserei dire “Latina”.
La maggior parte delle persone tagliano, facendo una diagonale, anziché percorrere i due lati. E quindi diciamo che è un gioco a non scontrarsi.

Come in tutte le grandi città, peró, il pericolo è sempre in agguato, e basta spostarsi di isolato e cambia completamente tutto.

A livello migratorio è una grande vetrina, ci sono ben trenta centri per migranti , cambiano parecchio tra l’uno e l’altro,ma diciamo che qui ho trovato un assistenzialismo che a Matamoros manca completamente.

Il primo che ho visitato è stato Espacio Migrante, si trova nella zona nord, poco distante dall’attraversamento pedonale del varco di San Ysidro (che porta negli USA). Ho perlustrato la zona in pieno giorno,facendo foto, video e interviste. Poi ho parlato con una delle responsabili del centro, e mi ha detto che è una zona critica e, appena due settimane fa, c’è stata una forte sparatoria , “lo vedi, i proiettili sono entrati anche qui- mi ha detto indicandomi i fori nel muro -fortuna che nessuna di noi era in ufficio in quel momento”.

Questa cosa della sparatoria mi ha suggestionato (del resto sento parlare di armi da quando ho messo piede negli States!).
Quella sera ho notato che anche nella mia stanza di hotel c’erano dei forellini sulla tenda. Improvvisamente mi sono sentita dentro uno di quei film polizieschi in cui durante gli inseguimenti nei pianerottoli gli assassini irrompono nelle camere di malcapitati mettendo tutto ko. Beh, per non saper né leggere né scrivere io ho chiuso con due mandate e messo la valigia sulla porta, dormendo così sonni tranquilli!

Per il resto di storie ne ho trovate, molte. La cosa che più mi ha colpito sono le forme di razzismo verso la comunità migrante di Haiti.
Vengono discriminati per il loro colore della pelle, e per essere gli unici del “continente” a non parlare spagnolo, a dispetto di tutti gli altri provenienti dal Centro America o dall’America Latina. Anche per i lavori a giornata gli haitiani sono i più richiesti, e vengono pagati meno. Insomma, anche in questa guerra tra poveri il tema della razza è radicato. Mi chiedo se il razzismo sia davvero insito nel nostro DNA,e se ci sia un modo per poterlo sconfiggere.

L’ultimo giorno mi sono regalata un pranzo in riva al mare, sulla spiaggia di Tijuana. Stavo mangiando nella terrazza di un ristorante in cui vedevo anche le spiagge di San Diego, al di là del muro. A un certo punto sento vociferare, tutti iniziano a fissare il mare e ad indicare un preciso punto. C’è un delfino, non troppo distante dalla riva, che svetta di tanto in tanto con i suoi salti oltre le onde. Va da sud verso nord,direzione muro. “Chissà se lo lasceranno passare,almeno lui”, dice ridendo una signora al tavolo dietro al mio. Poi lo perdiamo di vista, esce dai nostri radar visivi, “tranquille, si sta nascondendo dalla polizia di frontiera,appena vede via libera attraversa!”, afferma l’altra.

MONTERREY,LA CITTÀ DELLE MONTAGNE

Spostarsi via terra in Messico è poco consigliabile, perché i “cartelli della droga” sono ovunque, hanno occhi in tutte le arterie. Mi era stato altamente sconsigliato prima della partenza, soprattutto in un territorio “caldo” come quello del confine. Ed anche a Matamoros ne ho sentite di storie su questi famigerati tragitti. Fermano gli autobus, salgono e ti chiedono di pagare per continuare, è meglio per te se i soldi li hai…
Io ho cercato di ridurre gli spostamenti al minimo, ma qualcuno, però, ho dovuto farlo per forza. Quello da Matamoros a Monterrey, ad esempio, dove avrei dovuto raggiungere l’aeroporto. Dalla mia avevo due fattori: il primo è che andavo in senso contrario, ovvero mi allontanavo dal confine per tornare nel cuore del Messico (tragitto opposto rispetto a quello dei migranti), e dall’altra il passaporto europeo.
Son partita di mattina, il bus era quasi pieno,il tragitto è stato lungo ,perché non siamo andati subito a Monterrey, ma abbiamo percorso un pezzo , di confine,attraversando Reynosa (altro luogo caldo…).
Dopo circa tre ore, nel mezzo del niente, il bus si ferma e l’autista scende. Poco prima avevamo passato un presidio della policía federal, ma non ci avevano fermato.
E poi invece questo stop,in una piazzola nel nulla. Ecco che arrivano due persone e parlano con l’autista. Sale sul bus il primo: è un ormone vestito di nero,con tanto di passamontagna che gli lasciava scoperti solo gli occhi. Poteva essere un poliziotto, soltanto che non aveva alcun distintivo nè scritta sulla “pseudo divisa”. Fa un giro di perlustrazione, scruta tutti e poi scende.
Confabulano sotto, ed ecco che sale una donna. Lei è vestita con una pseudo divisa color sabbia, ed ha una kefiah al collo (ah, entrambi erano armati).
Si dirige verso di me,la tizia seduta al mio fianco si affretta a dire che non mi conosce. Mi chiede il passaporto prima, e poi di farle vedere lo zaino. Non glielo passo, mi limito a tirarlo su (lo avevo in mezzo alle gambe) e glielo apro davanti (mantenendo la distanza). Avevo messo il cappello in modo che coprisse la macchina fotografica, ma certo, bastava spostarlo e l’avrebbe vista. Non mi fa domande, al di là del generico “da dove vieni”. Mi abbozza un sorriso e scende. Penso di aver smaltito anni di vita in quei pochi minuti. Poi per fortuna l’autista risale e riprendiamo il tragitto.
Non saprò mai se si sia trattato di poliziotti o meno. Ad ogni modo è andata bene (e posso raccontarlo).

È così che arrivo a Monterrey con la tensione in corpo, e la stanchezza accumulata nei giorni precedenti. Soprattutto dalle storie ascoltate, che ti porti dentro, e poco a poco ti logorano.

Ed invece questa città è stata una piacevole scoperta, mi ha fatto dimenticare per un po’ il motivo del mio viaggio .
Mi ha fatto sentire in Messico, mi ha fatto percepire il Messico quello vero, dei quadri di Frida Kalho e Diego Rivera, della musica che risuona in ogni angolo della strada, di quell’atmosfera così coinvolgente che non può rimanerti indifferente.

Monterrey è considerata un po’ la “Milano del Messico”, un centro industriale imponente e in continua espansione. Da un po’ di tempo però l’hanno rivitalizzata con una serie di iniziative culturali. Ci sono musei, teatri, opere d’arte a cielo aperto, e tanti eventi.
Lo stile coloniale è forte ed imponente. La Gran Plaza, ad esempio, è una delle piazze più grandi al mondo. Alterna edifici di stampo coloniale e tradizionale, ad opere architettoniche moderne e contemporanee. Un mix affascinante.
Poco più di 24 ore ho trascorso in città, sono arrivata infatti alle 13, e all’indomani, alle 14, ero già in aeroporto. Però ci voleva questa ventata di aria nuova, malgrado l’afa asfissiante.

Mi è piaciuto passeggiare per il Barrio Antiguo, vicoli stretti, edifici colorati, pieno di bar, caffetterie negozi artigianali e di souvenir. Ho beccato anche il mercatino dei campesinos!
Nel pomeriggio sono andata al Paseo di Santa Lucia: è un canale artificiale con un lungomare pedonale, una pista ciclabile, delle aree verdi e una serie di sculture di artisti messicani. E’ stato rilassante fare su e giù, mi sembrava per un attimo di essere tornata a Bruges.
Insomma, doveva essere una meta anonima e insignificante, ed invece mi ha dato la giusta carica per affrontare le prossime tappe.
Sarebbe un’ideale meta per un weekend, peccato che sia leggermente fuori mano per una gita fuori porta!

LUNGO IL FIUME DI MATAMOROS

Sono entrata in Messico, a Matamoros per la precisione, percorrendo il ponte da Brownsville. Avevo il passaporto con me, ma nessuno mi ha chiesto nulla, eccetto un dollaro, rigorosamente in monete, che serviva ai tornelli per entrare e lasciarsi alle spalle gli States.Il mio ingresso in Messico è stato così, anonimo, non ho dovuto mostrare alcun documento, nessuno che mi abbia messo un visto d’ingresso (ma anche di uscita dagli USA). Insomma, oltrepassarlo andando verso sud, questo confine, è un gioco da ragazzi, parola di Romina!
Sono tre i ponti che collegano Brownsville e Matamoros, rispettivamente USA e Messico. E ho ascoltato storie assurde su queste infrastrutture. Ci sono donne che, alla fine della gravidanza, proprio negli ultimi momenti, si mettono in cammino su uno di questi ponti, sperando di riuscire ad entrare dall’altra parte in tempo. E ci sono stati bambini nati qui, sul ponte. Alcuni nella metà fortunata, altri no. Perché nascere sul suolo statunitense ti dà una marea di benefici, è come vincere la lotteria, e sono tante le neomamme che tentano la fortuna in questo modo.

È caotica Matamoros, è puro Messico. È colori, suoni, polvere, frastuono, buche, disordine. L’impatto è forte, soprattutto se vieni da una realtà ferma e impostata come quella di Brownsville.
Anche qui sono le auto a farla da padrone. Schizzano da ogni dove. Mi hanno spiegato che rappresentano un business fiorente in città. I veicoli che arrivano da questa parte, infatti, sono tutti gli scarti americani (difficile trovare una citycar, son quasi tutti Suv e Pick up). Ma non sono malmessi, perché di là si tende a cambiare spesso auto per moda. Ecco allora che, con 1.500 dollari riesci a comprarti un’auto e a lavorare con Didi.
Didi, che potrebbe sembrare il nome di una bambolina, è in realtà il servizio di car sharing, l’Uber messicano per intenderci. Funziona molto bene, dicono.
Io non ho avuto bisogno di provarlo perché, nei miei giorni a Matamoros, ho avuto il supporto logico di José Luis.
José Luis è il direttore di Casa del Migrante Matamoros, l’unica realtà che a Matamoros offre un tetto e un piatto caldo agli indocumentados. E’ una struttura della chiesa. José Luis per dodici anni è stato in seminario, era sul punto di farsi prete, ci ha ripensato a due giorni dal giuramento. Adesso si definisce laico. Una storia interessante la sua.
Avevo trovato Casa Migrante su Facebook, li ho contattati e lui mi ha subito risposto. Abbiamo fatto una Zoom call, all’interno della quale gli ho raccontato quale era il mio progetto, quale lo scopo del mio viaggio. Lui mi ha detto che potevo contare sul suo totale supporto e, anche se fosse stato impegnato nei giorni della mia visita, mi avrebbe lo stesso assistito. E così è stato, mi ha fatto un po’ un bodyguard virtuale, mi ha aiutato a pianificare gli appuntamenti, e mi gestiva gli spostamenti.
Grazie a lui ho potuto capire, in una manciata di giorni, una realtà complessa come quella di Matamoros.
Matamoros è una città di frontiera, e come tale la migrazione è sempre stata calda qui. Eppure, fino a qualche tempo fa, di migranti non se ne vedevano tanti in giro. C’erano, ma andavano via subito. Il Rio Bravo, ovvero il fiume che rappresenta la linea di confine (naturale) con il Texas, in questo punto è particolarmente stretto e, spesso, anche il flusso d’acqua è basso. Attraversarlo, nuotando o a bordo di alcuni materassini di fortuna, era una pratica molto in voga. Ci sono tantissimi video in rete di queste traversate.
Da qualche mese le regole sono cambiate, e si sono inasprite ancora di più. Si “entra” negli Stati Uniti solo per via legale, attraverso un’app, CBP1, attraverso la quale il migrante può richiedere un appuntamento ed entrare negli States (sul funzionamento di questa app beh…ne parlerò su altri schermi). Ma soprattutto, da metà maggio, è entrata in vigore una legge che, in caso di cattura, impedisce l’ingresso agli Stati Uniti per cinque anni.

E’ per questo che Matamoros è diventata un collo di bottiglia, e in questi ultimi mesi si è ritrovata piena di persone, al di qua del fiume, che non possono più attraversarlo. La gente è tutta accampata sulla riva del rio, in condizioni precarie, è nato una sorta di slum, fatto da tende di fortuna e pezzi di lamiera. Io l’ho visitato due volte, rigorosamente di giorno e….fa un certo effetto.
La seconda volta ad accompagnarmi c’era Cristina Romero, di Médicos Sin Fronteras (MSF). Messicana doc, viene dalla regione di Guerrero, e ha studiato a Cuba. E’ lì che è diventata un medico di medicina generale. Le ho detto che, durante il Covid, uno dei primi team sanitari che arrivarono a Bergamo fu proprio cubano, e che noi italiani lo avevamo apprezzato molto. Le si sono illuminati gli occhi quando le ho detto ciò. Cristina ama il suo lavoro, e mi ha fatto vedere come, l’assenza di una totale politica da parte del governo messicano in materia di gestione flussi, sta portando a questa deriva.
Le ho chiesto se lei abbia mai pensato di attraversare la frontiera, e ha scosso la testa senza esitare, non le interessa. Sta bene qui e vuole aiutare la sua gente, per lei è questo il Sogno Americano. Anche Jose Luis mi ha dato una risposta analoga nel corso della nostra intervista. Per loro, quel fiumiciattolo, non è un connotato di desideri e speranze, ma solo uno spartiacque.

Il tempo con Cristina è volato. Erano le 10.30 e il sole già iniziava a picchiare, quando mi chiama Andrea del Team Brownsville , i miei amici del magazzino. Stavano venendo a Matamoros per fare la distribuzione cibo nel campo degli haitiani , e mi chiedeva se ero ancora in zona. Mi son venuti a recuperare con il camioncino sulla strada principale, tra i due ponti. Appena salita ho scoperto l’arcano: prima di fare la distribuzione dovevamo andare a comprare il cibo, perché portarlo dagli Stati Uniti significava pagare una cospicua tassa alla dogana, in questo modo,invece, si sosteneva anche l’economia locale . Un ragionamento ineccepibile, nulla da ridire.
Abbiamo raggiunto un supermercato, alla periferia della città (ci abbiamo messo una marea di tempo) che vendeva merce allo spaccio. Scendiamo dal camioncino ed ognuno di loro prende un carrello di quelli giganti, da magazzino appunto.
Ed ecco che si presenta la scena di pochi giorni prima: carichiamo pacchi e pacchi di riso, tonno,pannolini,biscotti,spaghetti e acqua. “Romina ti facciamo sempre lavorare qui!”, mi ha detto ridendo il signore dell’altra volta, quello fissato con l’ordine.
Sono servita anche come traduttrice, alla cassa, perché la commessa ha voluto contare tutti i pacchi,e loro non capivano. Farmi contare a me beh…, erano in un pozzo di sicurezza!
Quando siamo usciti si è posto il problema di come impalare tutta quella merce sul camioncino (anche perché c’ero anche io i che occupavo spazio!), ed ecco che è iniziata una nuova catena umana, e conta di nuovo i pacchi, e dividi le scatole di latta da quelle di cartone etc. Ma lì mi sono fatta da parte e, con grande maestria, mi sono data il compito di riportare i vari carrelli al loro posto,una volta svuotati. E quindi ho fatto le vasche, avanti e indietro, ma questa volta senza trasportare il minimo peso. Beh che dire, era uno sporco lavoro, ma qualcuno doveva pur farlo!

In senso orario: io e gli amici del Team Brownsville diretti al supermercato; poi un selfie davanti al ponte, appena entrata sul suolo messicano (in evidente stato di.. “scottatura”!); foto ricordo con Jose Luis, direttamente dal suo ufficio, e poi uno scatto invece con Cristina di Medici Senza Frontiere. A seguire i migranti che, in file ordinate, aspettano il loro turno sul ponte. E invece un’istantanea della precarietà che si vive a bordo del fiume.

E il viaggio continua, Messico I’m here!

L'ESTREMO SUD DEGLI STATES

Brownsville è una cittadina di frontiera, e come tutti i luoghi di frontiera ha un mix di culture che in un primo momento ti fa estraniare, poi ti fa cogliere il senso ultimo di questo crocevia.
A prima vista è il classico countryside americano. Strade piatte, paesaggi fermi, casette a schiera tutte uguali, street a mille corsie, andamento lento, poche persone in strada.

Il flusso di migranti qui c’è sempre stato. Dall’altra parte del fiume, infatti, c’è il Messico. Il Rio Bravo rappresenta quasi la metà della frontiera, una barriera naturale, che separa l’America Centrale dagli USA. Ma qui questa barriera fluviale non bastava più, e l’ex presidente Donald Trump ha fatto costruire un muro, di ferro e filo spinato, che si estende per vari chilometri.
Tra i due paesi la comunicazione è forte, lo si vede dai tre ponti che rappresentano i punti d’accesso, abbastanza liberi in uscita, piuttosto congestionati in entrata (chissà perché..!).

Questa piccola cittadina era balzata alle cronache mondiali quando, lo scorso 7 maggio, un ragazzo alla guida di un Suv ha travolto e ucciso otto migranti che si trovavano alla fermata dell’autobus nei pressi di un centro di accoglienza. Era seguita un’ondata di sdegno generale, si era parlato di un atto di razzismo etc. E poi, come tutti i casi di cronaca che si rispettino, la vicenda è caduta nel dimenticatoio.
Non per le vittime però. Io ho incontrato la mamma di una di loro, Maria. Suo figlio aveva 19 anni, era venezuelano, ed era arrivato negli States da pochi giorni. “Ce l’aveva fatta a coronare il suo sogno americano, ma quell’uomo al volante ha distrutto tutto”, mi ha detto Maria tra le lacrime.
Perdere un figlio è la cosa peggiore che possa capitare, e non ci sono parole adatte a lenire tale dolore. Maria è venuta qui dopo qualche giorno dalla tragedia, per il riconoscimento del cadavere. Ora sono passati due mesi, il suo Visto temporaneo sta per scadere, e lei deve tornare nel suo paese. Ma non sa cosa farà, da una parte ha il resto della sua famiglia, suo marito e le sue figlie, che l’aspettano in Venezuela. Dall’altra parte lei ora si trova qui, e crede di avere in mano la possibilità di realizzare quel Sogno che suo figlio ha pagato con la vita.
Ho conosciuto Maria perché è ospitata all’interno di un piccolo centro allestito nella periferia della città dalla chiesta battista Iglesia Bautista West Brownsville , una delle poche realtà che qui offre assistenza ai migranti.
Ho trascorso una giornata con un gruppo di volontari, c’era George, che è il braccio destro del Pastore Carlos Navarro (il fondatore di questa realtà), un ragazzo messicano che frequenta questa chiesa dal 2017, ed è qui che ha conosciuto la sua attuale moglie (si sono sposati nel febbraio 2020, due settimane prima dell’arrivo del Covid!) e poi un signore che è arrivato dal South Carolina e ha percorso 1300 miglia (2 mila km ndr) in auto, attraversando la Georgia, l’Alabama, la Louisiana e tutto il Texas, per fare questa esperienza di volontariato.
La giornata al loro fianco è stata intensa. Siamo andati a distribuire viveri e beni di prima necessità ad alcuni migranti che avevano appena attraversato il ponte e aspettavano l’autobus. Erano di diverse nazionalità, soprattutto venezuelani e honduregni, ma c’erano anche Haitiani, ecuadoregni e salvadoregni. Alcuni erano diretti a Dallas, altri in Carolina, a New York, in Virginia, persino a Chicago.
Già, perché Brownsville è una porta di ingresso, non certo una destinazione finale. La stazione degli autobus sorge proprio davanti al ponte nuovo. Da qui partono bus diretti in una miriade di destinazioni (ci sono viaggi, ad esempio, che richiedono anche tre giorni in bus).
Poi siamo andati a portare da mangiare a un gruppo di senzatetto. Saranno stati una trentina di persone, si trovavano tutte in una piazzetta in downtown. Questa esperienza è stata particolarmente intensa, soprattutto per l’approccio ad un’utenza così fragile. Avevo timore a parlare con loro, pian piano mi sono sciolta. Ci son stati più sorrisi che parole, a dire il vero.. ma ci sta, in fondo, i gesti contano, mentre le parole spesso sono vuote. Quando abbiamo finito, prima di andare via, si sono raccolti tutti in cerchio per una preghiera finale. A condurla è stato George, che mi ha ringraziato per esser lì a condividere quel momento con loro, ed ha chiesto una benedizione affinché il mio viaggio proceda al sicuro e nel migliore dei modi. Essere al centro e vedere tutti i barboni pregare per me beh… mi ha fatto un certo effetto, perché le insidie che rischio io di certo sono minime rispetto a quelle a cui si interfacciano loro, giorno e notte.

Il tour ha preso poi una piega inaspettata, perché mi hanno portato in un mega magazzino, dove c’era un camion gigante (real american!) da scaricare. Erano delle donazioni arrivate all’associazione Team Brownsville da vari enti. Avevo trovato quest’associazione su Facebook, avevo visto che erano molto attivi nell’accoglienza, ho provato a contattarli varie volte, ma non mi hanno mai risposto. In quel momento ho capito il perché. E così mi sono rimboccata le maniche, come si suol dire, ed eccomi, come per incanto, vestire i panni di un magazziniere (e questa sì che è stata la prima volta nella mia vita!).
Scaricavamo i pacchi dal camion (il signore del South Carolina era salito su, li passava al messicano che a sua volta li passava a me che li mettevo nel carrello), quando il carrello era pieno lo portavamo all’interno, e riversavamo quella merce nei vari box. C’erano tende, calzini, lampade solari, kit per l’igiene e altro. Saremo andati avanti per circa tre ore, e ogni tanto arrivava qualche nuovo volontario ad aiutare. Quei pallet però erano infiniti, sembrava aumentassero anziché diminuire. Andrea Rudnik, la coordinatrice dell’associazione, mi ha spiegato che stoccare le cose nel modo giusto è fondamentale, perché altrimenti si rischia poi di non ritrovarle.
Si era creato un siparietto divertente con un signore, grande e grosso, che ad un certo punto mi ha affiancato nel riempimento dei carrelli. Perché io posizionavo i cartoni senza badare a dove, e lui me li sistemava. Sembrava un maniaco dell’ordine, in fondo li dovevamo poi travasare di nuovo. Siamo andati avanti per un po’ così, e poi a un certo punto, ridendo, mi ha detto: “Si vede che tu non ti sei mai occupata di logistica!”. Però è intervenuta Andrea, che lo ha rimproverato bonariamente, dicendogli che ero una giornalista e, per la precisione, ero la prima giornalista che si era messa a scaricare un camion di merci, anziché fare foto. Beh…diciamo pure che non ho avuto poi granché scelta!
Certo che qui portare avanti le conversazioni, e capirle, è difficile. Non per la lingua in sé (inglese o spagnolo poco importa), ma per i contenuti. Perché se si parla di temperature non si usano i gradi celsius ma fahrenheit, se si parla di distanze si usano le miglia e non i chilometri, se si parla di peso non ci sono i grammi ma le libbre…una faticaccia insomma afferrare un concetto ogni volta! L’unica che capisco al volo è la valuta, perché nella mia testa dollaro e euro più o meno si equivalgono (devo semplificare qualcosa per sopravvivere in fondo!).

Queste sono solo alcune delle persone e delle realtà che ho avuto modo di conoscere nei giorni trascorsi qui, nell’estremo sud statunitense. Mi son trovata dinanzi un mix per molti versi disorientante, perché quando pensi di aver afferrato una realtà, ecco che ti presenta l’esatto opposto. Ma del resto il fascino dei territori di frontiera è questo, la contaminazione che c’è.
La ragazza che faceva le pulizie all’ostello, ad esempio, è messicana, e vive a Matamoros, dall’altra parte del ponte. Ha attraversato il fiume a nuoto, in maniera irregolare, sei mesi fa, ed ora non può più fare ritorno al suo paese. Dice che per il momento le va bene così, e ogni settimana, con Western Union, invia alla famiglia i soldi che guadagna. Fa un trasferimento elettronico, con tanto di commissione, nonostante i suoi genitori vivano ad una manciata di chilometri (o miglia che dir si voglia). Ma le distanze, in territori come questo, sono relative.

La ragazza di Uber invece, che l’ultimo giorno mi ha portato al ponte, ha tutta un’altra storia. Anche lei viene da Matamoros, ma ha regolari documenti. Così la mattina viene qui a lavorare, la sera torna di là dalla sua famiglia. Vive in due Stati, un po’ come fanno i nostri frontalieri a Chiasso insomma!

Nella foto, dall’alto e in senso orario, una casetta (abbastanza inquietante!), di fronte al mio ostello; uno scatto di gruppo dopo la distribuzione viveri; io al cospetto del muro di Trump; e in ultimo un seflie che testimonia la mia esperienza da magazziniere (mancato!) sotto il sole cocente.

QUERIDA HOUSTON

Con il passare dei giorni Houston mi ha mostrato un volto diverso, e la freddezza iniziale (non climatica!) si è dissolta pian piano. Sabato, ad esempio, ho passato tutta la giornata spostandomi da una parte all’altra con i mezzi pubblici, ed è stata un’avventura nell’avventura. Non avevo Internet, non mi funzionava Google Maps, ogni tanto che trovavo qualche Wifi riuscivo a geolocalizzarmi, così da puntare alla prossima destinazione.
Gli autisti, anzi, le autiste (perché ho trovato soprattutto donzelle alla guida), mi hanno preso in simpatia, guidandomi nei vari spostamenti. Sui mezzi si possono capire tante cose della città, che c’è un ritmo lento, ad esempio. E nessuno ha fretta di salire, e neppure di scendere.
Ma sono state le persone incrociate in questi giorni che, come sempre, hanno dato un senso alla mia permanenza sul suolo americano.
Uno dei primi giorni ho incontrato Moises, è un giornalista dell’AFP, è peruviano e fa il corrispondente da Houston da 5 mesi, dopo esser stato vari anni tra Panama e Cuba (un curriculum niente male il suo…). Mi ha raccontato un po’ le sue impressioni, e di tutte le contraddizioni insite nella società americana. E mi ha dato degli spunti e delle chiavi di lettura interessanti, che io non sarei stata in grado di cogliere in così poco tempo.

E poi ho avuto la fortuna di incontrare Adelaide, anche lei è una collega, viene dal Nicaragua, e da un anno ha deciso di ripartire da zero negli States. Fare la giornalista in un paese dove non c’è stabilità politica, dove i colpi di Stato sono all’ordine del giorno, e non c’è libertà di informazione beh… non è uno scherzo, e mi ha fatto riflettere su alcune fortune che, troppo spesso, ci dimentichiamo di possedere.
Adelaide ha riscritto tutta la sua vita da un giorno all’altro: è arrivata a Houston per amore. Il suo attuale marito, cresciuto qui, ma domenicano di origini, lo ha conosciuto attraverso un’altra passione che lei coltiva (del resto alzi la mano il giornalista che non abbia anche un’altra professione!): è un’esperta di “terapia di bosco” (ha a che fare con la meditazione, i suoni della natura etc…). Lui si è imbattuto nel suo profilo online, l’ha contattata e si sono iniziati a sentire. Si sono incontrati per un motivo professionale non mi ricordo in quale paese del Centro America, hanno trascorso insieme una settimana ed è nato qualcosa. Un qualcosa che è cresciuto poi, nel corso di sei mesi, che hanno speso conoscendosi a distanza, giorno dopo giorno. Finché, un giorno, lui l’ha raggiunta a Santo Domingo (dove lei stava portando avanti un progetto sulla sostenibilità), e le ha chiesto di sposarla. Ed eccoli, oggi, insieme, ad un anno di distanza, a scrivere un pezzo di vita insieme.

E come non parlare di Ximena: mi ha aperto le porte di casa sua, mi ha fatto conoscere i mille volti di questa città, facendomi sperimentare anche prelibatezze culinarie (il barbecue e la cucina TexMex) , mi ha mostrato dal di dentro un progetto pilota che ha costruito da zero sull’empowerment femminile, e destinato a fare molta strada. Ma soprattutto, quello che mi ha colpito di lei, è la devozione e l’amore con cui accudisce sua mamma. Josefa, classe 1933, è una donna di grande cultura e fede. E’ boliviana,di professione faceva l’insegnante e ha viaggiato moltissimo, sia in Europa che in America. E proprio oggi, mercoledì 12 luglio, alla veneranda età di 90 anni, acquisirà la cittadinanza statunitense, con una cerimonia ad hoc insieme ad altre 200 persone.
Vederle insieme, osservarle nella quotidianità, in questo rapporto così limpido, totalizzante, di una tenerezza infinita, è stata per me un’autentica lezione di vita.
Mi hanno fatto sentire a casa, sin dal primo momento.

Dovevo andarmene di sera, per viaggiare di notte con il bus. Volevo prendere l’Uber ma non c’è stato verso, hanno insistito per accompagnarmi. Il mio autobus partiva a mezzanotte (orario comodo insomma…), loro sono uscite in pigiama e alle 23 ci siamo messe in macchina.
Arrivate al punto di incontro, che ho scoperto non essere una stazione, ma un parcheggio sulla freeway, Josefa doveva andare in bagno, e così, tutte e tre siamo andate al punto ristoro aperto 24 su 24.
Ad accoglierci c’era un ragazzo che parlava un inglese incredibilmente ben comprensibile: era afghano, ecco perché lo capivo alla perfezione. Lui le ha tranquillizzate, dicendo che potevano andare via, che lì era un posto sicuro ed io avrei potuto aspettare l’orario stabilito rimanendo dentro il negozio. Così le ho salutate, e l’ultima mezz’ora l’ho passata in questa specie di 7Eleven. Il ragazzo era discreto, non mi dava molta confidenza, ma era premuroso: mi ha offerto il caffé,e gli ultimi dieci minuti mi ha accompagnato fuori, alla fermata, aspettando che arrivasse l’autobus.
Avrei voluto fargli domande, conoscere la sua storia, avrei voluto dirgli che conoscevo il suo paese, che c’ero stata ben due volte, e che mi dispiaceva enormemente per la deriva che aveva preso negli ultimi due anni con la presa dei talebani. Ma non gli ho detto nulla, ho preferito tacere e godermi quel silenzio di attesa.

E’ questa l’immagine che porterò dentro di me di Houston, come un’istantanea del viaggio: una signora di 90 anni e sua figlia, in pigiama, che alle 11 di sera mi accompagnano nel mezzo del nowhere, ed un ragazzo afghano che mi fa compagnia e mi offre un caffé aspettando in silenzio l’autobus delle 00. E’ sempre bello sentirsi circondati da gentilezza, ma in terra straniera lo è ancor di più.
E penso che sarebbe migliore, il nostro mondo, se tutte le persone in viaggio potessero provare questa bella sensazione.

Nella foto: io in estasi dinanzi al Williams Tower, alcuni momenti trascorsi con Josefa, Adelaide e Ximena, l’ingresso allo Space Center (eh sì, sono andata anche alla NASA!) e uno scatto rubato durante le riprese.

Ciao Houston, alla prossima meta!

HOUSTON, ABBIAMO UN PROBLEMA!

Quando penso alle grandi città americane penso alla fiumana di gente, a questi incroci in cui le persone si schivano guardando sempre dinanzi a loro, penso a tutte le occasioni che si perdono in quei momenti, un continuo sliding doors.
Ecco, nulla di più lontano da Houston.
Perché qui, a Houston, ai semafori ad attraversare ci sono solo io. A percorrere le infinite street ci sono solo io, ed anche sui bus, presi ieri, le persone salgono con il contagocce. Sull’11, ad esempio, che è passato anche 5 minuti prima rispetto a quanto mi segnalava Google Maps, la driver mi ha fatto salire gratis, “così mi fai compagnia”, mi ha detto mentre guidava.
Sul bus c’ero, infatti, solo io, circondata da una serie di sedili blu vuoti ed uno giallo, quello dedicato a Rosa Parks.
Ho letto che è un’iniziativa dello scorso anno, e la reputo lodevole. Perché è importante ricordare, alle nuove generazioni (ma anche alle vecchie) che c’è stato un periodo in cui, negli autobus, c’erano dei posti riservati ai bianchi ed altri ai neri.

Un’altra cosa che ho notato, in questi primi giorni qui, è che è difficile anche trovare le cose basiche. Un supermercato in cui comprare banalmente della frutta, ad esempio. I Walgreens and Co la fanno da padrone nelle grandi highway, ai margini delle strade, ne ho visti a bizzeffa passando in auto o con il bus, ma ne avessi incontrato mezzo mentre camminavo per le varie zone della città!
Ieri pioveva, e pioggia ed umidità erano un mix perfetto. A metà giornata avevo già finito le mie interviste, e così mi era venuta in mente l’idea di andare a vedere dei souvenir. E’ stato come cercare un ago in un pagliaio. Entravo nei grattacieli per chiedere delle Mall, ma non c’erano. Alla fine ho scoperto un tunnel sotterraneo, che si espande in tutto il LOOP della downtown, era pieno di ristoranti e vetrine abbassate. Erano le 16 di un anonimo giovedì di luglio…chissà!

Houston è la città più popolosa del Texas, è la quarta maggiore metropoli degli Stati Uniti. Ed ha quello che io amo delle metropoli,i contrasti. Si passa dagli skylines di downtown e Galleria, con grattacieli che svettano, cascate mega galattiche e lusso di ogni tipo, alle periferie più profonde.
Alcuni isolati sono distinti per etnie: c’è la zona del Medioriente, poi quelle in cui primeggiano vari paesi latini: la strada del Guatemala, quella della Colombia, quella del Messico of course.
Se sto riuscendo ad addentrarmi in tutto ciò è merito di Ximena, che è una donna fantastica, e porta avanti un lavoro encomiabile (di cui parlerò in seguito). Mi ha aperto le porte di casa sua, e l’impressione è quella di conoscerla da sempre.
La prima sera, mi ha fatto fare il tour della città in macchina, al sedile di dietro c’era sua mamma, novantenne (ed anche lei merita un capitolo a parte…). Ad un certo punto, mentre eravamo ferme ad un semaforo, la signora mi dice: “Romina, visto che sei una giornalista, hai un revolver nella borsa?”
Io l’ho guardata allibita, ma poi ho riflettuto: qui siamo in Texas, e le armi beh…sono pane quotidiano. Si tengono in borsa, così come i fazzoletti.

Qui sotto alcuni scatti rubati in downtown. In basso a destra sono con Ximena, dalla parte opposta al Waterwall Park. E poi eccomi con Ana, Cande e Josefina, al termine del primo round di riprese.

Stay tuned!

Cara Romina

Avevo dimenticato cosa significasse attraversare l’oceano, le attese infinite all’aeroporto, fare dieci mila passi solo per raggiungere un gate durante uno scalo internazionale,ed anche sentirsi parte di quel flusso di gente che corre, si scontra senza incontrarsi mai.

Avevo dimenticato anche come ci si sentisse a stare tante ore in volo.
Ed eccomi qui, ne mancano ancora 7 ore e 40, stiamo sorvolando l’Islanda in questo momento, ed io ho già visto un film (Il gatto con gli stivali!),dormito in tutte le posizioni immaginabili , mangiato a più riprese, ascoltato BBC e CNN news e non ho la minima idea di cosa fare nel resto del tempo a bordo .

Ed allora provo a scrivermi, a scrivere alla me che , fra tre settimane, starà facendo questa rotta a ritroso.

È un esercizio che ha fatto già,il mese scorso,qualcuno che mi sta molto a cuore. A lui ha portato bene,e spero che possa essere di buon augurio anche per me.

Cara Romina,
spero che questo viaggio ti abbia arricchito,di storie, di persone e di luoghi.

Spero che tu alla fine sia riuscita a fare un itinerario decoroso e sensato, perché ad oggi hai così le idee confuse che anche Google Maps non sa più quale percorso consigliarti.

Spero che le paure legate al tuo lavoro si siano dissolte, anzi, che la passione che metti in tutto quello che fai abbia avuto la meglio, anche questa volta .

E spero che tu sia riuscita a toccare con mano quel famoso muro, e che la tua testardaggine non ti abbia creato troppi problemi.
Perché nei territori di frontiera la libertà di movimento spesso viene a meno, anche se una viaggia con un passaporto “ potente” come quello europeo.Nonostante tutto spero che tu ce l’abbia fatta a fare avanti e indietro, a vedere al di qua e al di là, a conoscere quella realtà così complessa da comprendere da fuori .

Quando sei partita avevi un vortice di emozioni tremendo nella tua testa, la tua anima era in subbuglio, e se hai mantenuto quelle stesse sensazioni beh..allora so che sarai anche contenta di rientrare.

A volte penso che sarebbe bello riuscire a congelare i momenti, in quella sensazione di attesa che è un mix tra paura e desiderio. Eppure non avrebbe senso rimanere in sospeso,perché le occasioni vanno vissute,e spero che tu lo abbia fatto appieno , Romina, senza risparmiarti.

Ed allora buon viaggio,
a te e a me.