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L'ESTREMO SUD DEGLI STATES

Brownsville è una cittadina di frontiera, e come tutti i luoghi di frontiera ha un mix di culture che in un primo momento ti fa estraniare, poi ti fa cogliere il senso ultimo di questo crocevia.
A prima vista è il classico countryside americano. Strade piatte, paesaggi fermi, casette a schiera tutte uguali, street a mille corsie, andamento lento, poche persone in strada.

Il flusso di migranti qui c’è sempre stato. Dall’altra parte del fiume, infatti, c’è il Messico. Il Rio Bravo rappresenta quasi la metà della frontiera, una barriera naturale, che separa l’America Centrale dagli USA. Ma qui questa barriera fluviale non bastava più, e l’ex presidente Donald Trump ha fatto costruire un muro, di ferro e filo spinato, che si estende per vari chilometri.
Tra i due paesi la comunicazione è forte, lo si vede dai tre ponti che rappresentano i punti d’accesso, abbastanza liberi in uscita, piuttosto congestionati in entrata (chissà perché..!).

Questa piccola cittadina era balzata alle cronache mondiali quando, lo scorso 7 maggio, un ragazzo alla guida di un Suv ha travolto e ucciso otto migranti che si trovavano alla fermata dell’autobus nei pressi di un centro di accoglienza. Era seguita un’ondata di sdegno generale, si era parlato di un atto di razzismo etc. E poi, come tutti i casi di cronaca che si rispettino, la vicenda è caduta nel dimenticatoio.
Non per le vittime però. Io ho incontrato la mamma di una di loro, Maria. Suo figlio aveva 19 anni, era venezuelano, ed era arrivato negli States da pochi giorni. “Ce l’aveva fatta a coronare il suo sogno americano, ma quell’uomo al volante ha distrutto tutto”, mi ha detto Maria tra le lacrime.
Perdere un figlio è la cosa peggiore che possa capitare, e non ci sono parole adatte a lenire tale dolore. Maria è venuta qui dopo qualche giorno dalla tragedia, per il riconoscimento del cadavere. Ora sono passati due mesi, il suo Visto temporaneo sta per scadere, e lei deve tornare nel suo paese. Ma non sa cosa farà, da una parte ha il resto della sua famiglia, suo marito e le sue figlie, che l’aspettano in Venezuela. Dall’altra parte lei ora si trova qui, e crede di avere in mano la possibilità di realizzare quel Sogno che suo figlio ha pagato con la vita.
Ho conosciuto Maria perché è ospitata all’interno di un piccolo centro allestito nella periferia della città dalla chiesta battista Iglesia Bautista West Brownsville , una delle poche realtà che qui offre assistenza ai migranti.
Ho trascorso una giornata con un gruppo di volontari, c’era George, che è il braccio destro del Pastore Carlos Navarro (il fondatore di questa realtà), un ragazzo messicano che frequenta questa chiesa dal 2017, ed è qui che ha conosciuto la sua attuale moglie (si sono sposati nel febbraio 2020, due settimane prima dell’arrivo del Covid!) e poi un signore che è arrivato dal South Carolina e ha percorso 1300 miglia (2 mila km ndr) in auto, attraversando la Georgia, l’Alabama, la Louisiana e tutto il Texas, per fare questa esperienza di volontariato.
La giornata al loro fianco è stata intensa. Siamo andati a distribuire viveri e beni di prima necessità ad alcuni migranti che avevano appena attraversato il ponte e aspettavano l’autobus. Erano di diverse nazionalità, soprattutto venezuelani e honduregni, ma c’erano anche Haitiani, ecuadoregni e salvadoregni. Alcuni erano diretti a Dallas, altri in Carolina, a New York, in Virginia, persino a Chicago.
Già, perché Brownsville è una porta di ingresso, non certo una destinazione finale. La stazione degli autobus sorge proprio davanti al ponte nuovo. Da qui partono bus diretti in una miriade di destinazioni (ci sono viaggi, ad esempio, che richiedono anche tre giorni in bus).
Poi siamo andati a portare da mangiare a un gruppo di senzatetto. Saranno stati una trentina di persone, si trovavano tutte in una piazzetta in downtown. Questa esperienza è stata particolarmente intensa, soprattutto per l’approccio ad un’utenza così fragile. Avevo timore a parlare con loro, pian piano mi sono sciolta. Ci son stati più sorrisi che parole, a dire il vero.. ma ci sta, in fondo, i gesti contano, mentre le parole spesso sono vuote. Quando abbiamo finito, prima di andare via, si sono raccolti tutti in cerchio per una preghiera finale. A condurla è stato George, che mi ha ringraziato per esser lì a condividere quel momento con loro, ed ha chiesto una benedizione affinché il mio viaggio proceda al sicuro e nel migliore dei modi. Essere al centro e vedere tutti i barboni pregare per me beh… mi ha fatto un certo effetto, perché le insidie che rischio io di certo sono minime rispetto a quelle a cui si interfacciano loro, giorno e notte.

Il tour ha preso poi una piega inaspettata, perché mi hanno portato in un mega magazzino, dove c’era un camion gigante (real american!) da scaricare. Erano delle donazioni arrivate all’associazione Team Brownsville da vari enti. Avevo trovato quest’associazione su Facebook, avevo visto che erano molto attivi nell’accoglienza, ho provato a contattarli varie volte, ma non mi hanno mai risposto. In quel momento ho capito il perché. E così mi sono rimboccata le maniche, come si suol dire, ed eccomi, come per incanto, vestire i panni di un magazziniere (e questa sì che è stata la prima volta nella mia vita!).
Scaricavamo i pacchi dal camion (il signore del South Carolina era salito su, li passava al messicano che a sua volta li passava a me che li mettevo nel carrello), quando il carrello era pieno lo portavamo all’interno, e riversavamo quella merce nei vari box. C’erano tende, calzini, lampade solari, kit per l’igiene e altro. Saremo andati avanti per circa tre ore, e ogni tanto arrivava qualche nuovo volontario ad aiutare. Quei pallet però erano infiniti, sembrava aumentassero anziché diminuire. Andrea Rudnik, la coordinatrice dell’associazione, mi ha spiegato che stoccare le cose nel modo giusto è fondamentale, perché altrimenti si rischia poi di non ritrovarle.
Si era creato un siparietto divertente con un signore, grande e grosso, che ad un certo punto mi ha affiancato nel riempimento dei carrelli. Perché io posizionavo i cartoni senza badare a dove, e lui me li sistemava. Sembrava un maniaco dell’ordine, in fondo li dovevamo poi travasare di nuovo. Siamo andati avanti per un po’ così, e poi a un certo punto, ridendo, mi ha detto: “Si vede che tu non ti sei mai occupata di logistica!”. Però è intervenuta Andrea, che lo ha rimproverato bonariamente, dicendogli che ero una giornalista e, per la precisione, ero la prima giornalista che si era messa a scaricare un camion di merci, anziché fare foto. Beh…diciamo pure che non ho avuto poi granché scelta!
Certo che qui portare avanti le conversazioni, e capirle, è difficile. Non per la lingua in sé (inglese o spagnolo poco importa), ma per i contenuti. Perché se si parla di temperature non si usano i gradi celsius ma fahrenheit, se si parla di distanze si usano le miglia e non i chilometri, se si parla di peso non ci sono i grammi ma le libbre…una faticaccia insomma afferrare un concetto ogni volta! L’unica che capisco al volo è la valuta, perché nella mia testa dollaro e euro più o meno si equivalgono (devo semplificare qualcosa per sopravvivere in fondo!).

Queste sono solo alcune delle persone e delle realtà che ho avuto modo di conoscere nei giorni trascorsi qui, nell’estremo sud statunitense. Mi son trovata dinanzi un mix per molti versi disorientante, perché quando pensi di aver afferrato una realtà, ecco che ti presenta l’esatto opposto. Ma del resto il fascino dei territori di frontiera è questo, la contaminazione che c’è.
La ragazza che faceva le pulizie all’ostello, ad esempio, è messicana, e vive a Matamoros, dall’altra parte del ponte. Ha attraversato il fiume a nuoto, in maniera irregolare, sei mesi fa, ed ora non può più fare ritorno al suo paese. Dice che per il momento le va bene così, e ogni settimana, con Western Union, invia alla famiglia i soldi che guadagna. Fa un trasferimento elettronico, con tanto di commissione, nonostante i suoi genitori vivano ad una manciata di chilometri (o miglia che dir si voglia). Ma le distanze, in territori come questo, sono relative.

La ragazza di Uber invece, che l’ultimo giorno mi ha portato al ponte, ha tutta un’altra storia. Anche lei viene da Matamoros, ma ha regolari documenti. Così la mattina viene qui a lavorare, la sera torna di là dalla sua famiglia. Vive in due Stati, un po’ come fanno i nostri frontalieri a Chiasso insomma!

Nella foto, dall’alto e in senso orario, una casetta (abbastanza inquietante!), di fronte al mio ostello; uno scatto di gruppo dopo la distribuzione viveri; io al cospetto del muro di Trump; e in ultimo un seflie che testimonia la mia esperienza da magazziniere (mancato!) sotto il sole cocente.

QUERIDA HOUSTON

Con il passare dei giorni Houston mi ha mostrato un volto diverso, e la freddezza iniziale (non climatica!) si è dissolta pian piano. Sabato, ad esempio, ho passato tutta la giornata spostandomi da una parte all’altra con i mezzi pubblici, ed è stata un’avventura nell’avventura. Non avevo Internet, non mi funzionava Google Maps, ogni tanto che trovavo qualche Wifi riuscivo a geolocalizzarmi, così da puntare alla prossima destinazione.
Gli autisti, anzi, le autiste (perché ho trovato soprattutto donzelle alla guida), mi hanno preso in simpatia, guidandomi nei vari spostamenti. Sui mezzi si possono capire tante cose della città, che c’è un ritmo lento, ad esempio. E nessuno ha fretta di salire, e neppure di scendere.
Ma sono state le persone incrociate in questi giorni che, come sempre, hanno dato un senso alla mia permanenza sul suolo americano.
Uno dei primi giorni ho incontrato Moises, è un giornalista dell’AFP, è peruviano e fa il corrispondente da Houston da 5 mesi, dopo esser stato vari anni tra Panama e Cuba (un curriculum niente male il suo…). Mi ha raccontato un po’ le sue impressioni, e di tutte le contraddizioni insite nella società americana. E mi ha dato degli spunti e delle chiavi di lettura interessanti, che io non sarei stata in grado di cogliere in così poco tempo.

E poi ho avuto la fortuna di incontrare Adelaide, anche lei è una collega, viene dal Nicaragua, e da un anno ha deciso di ripartire da zero negli States. Fare la giornalista in un paese dove non c’è stabilità politica, dove i colpi di Stato sono all’ordine del giorno, e non c’è libertà di informazione beh… non è uno scherzo, e mi ha fatto riflettere su alcune fortune che, troppo spesso, ci dimentichiamo di possedere.
Adelaide ha riscritto tutta la sua vita da un giorno all’altro: è arrivata a Houston per amore. Il suo attuale marito, cresciuto qui, ma domenicano di origini, lo ha conosciuto attraverso un’altra passione che lei coltiva (del resto alzi la mano il giornalista che non abbia anche un’altra professione!): è un’esperta di “terapia di bosco” (ha a che fare con la meditazione, i suoni della natura etc…). Lui si è imbattuto nel suo profilo online, l’ha contattata e si sono iniziati a sentire. Si sono incontrati per un motivo professionale non mi ricordo in quale paese del Centro America, hanno trascorso insieme una settimana ed è nato qualcosa. Un qualcosa che è cresciuto poi, nel corso di sei mesi, che hanno speso conoscendosi a distanza, giorno dopo giorno. Finché, un giorno, lui l’ha raggiunta a Santo Domingo (dove lei stava portando avanti un progetto sulla sostenibilità), e le ha chiesto di sposarla. Ed eccoli, oggi, insieme, ad un anno di distanza, a scrivere un pezzo di vita insieme.

E come non parlare di Ximena: mi ha aperto le porte di casa sua, mi ha fatto conoscere i mille volti di questa città, facendomi sperimentare anche prelibatezze culinarie (il barbecue e la cucina TexMex) , mi ha mostrato dal di dentro un progetto pilota che ha costruito da zero sull’empowerment femminile, e destinato a fare molta strada. Ma soprattutto, quello che mi ha colpito di lei, è la devozione e l’amore con cui accudisce sua mamma. Josefa, classe 1933, è una donna di grande cultura e fede. E’ boliviana,di professione faceva l’insegnante e ha viaggiato moltissimo, sia in Europa che in America. E proprio oggi, mercoledì 12 luglio, alla veneranda età di 90 anni, acquisirà la cittadinanza statunitense, con una cerimonia ad hoc insieme ad altre 200 persone.
Vederle insieme, osservarle nella quotidianità, in questo rapporto così limpido, totalizzante, di una tenerezza infinita, è stata per me un’autentica lezione di vita.
Mi hanno fatto sentire a casa, sin dal primo momento.

Dovevo andarmene di sera, per viaggiare di notte con il bus. Volevo prendere l’Uber ma non c’è stato verso, hanno insistito per accompagnarmi. Il mio autobus partiva a mezzanotte (orario comodo insomma…), loro sono uscite in pigiama e alle 23 ci siamo messe in macchina.
Arrivate al punto di incontro, che ho scoperto non essere una stazione, ma un parcheggio sulla freeway, Josefa doveva andare in bagno, e così, tutte e tre siamo andate al punto ristoro aperto 24 su 24.
Ad accoglierci c’era un ragazzo che parlava un inglese incredibilmente ben comprensibile: era afghano, ecco perché lo capivo alla perfezione. Lui le ha tranquillizzate, dicendo che potevano andare via, che lì era un posto sicuro ed io avrei potuto aspettare l’orario stabilito rimanendo dentro il negozio. Così le ho salutate, e l’ultima mezz’ora l’ho passata in questa specie di 7Eleven. Il ragazzo era discreto, non mi dava molta confidenza, ma era premuroso: mi ha offerto il caffé,e gli ultimi dieci minuti mi ha accompagnato fuori, alla fermata, aspettando che arrivasse l’autobus.
Avrei voluto fargli domande, conoscere la sua storia, avrei voluto dirgli che conoscevo il suo paese, che c’ero stata ben due volte, e che mi dispiaceva enormemente per la deriva che aveva preso negli ultimi due anni con la presa dei talebani. Ma non gli ho detto nulla, ho preferito tacere e godermi quel silenzio di attesa.

E’ questa l’immagine che porterò dentro di me di Houston, come un’istantanea del viaggio: una signora di 90 anni e sua figlia, in pigiama, che alle 11 di sera mi accompagnano nel mezzo del nowhere, ed un ragazzo afghano che mi fa compagnia e mi offre un caffé aspettando in silenzio l’autobus delle 00. E’ sempre bello sentirsi circondati da gentilezza, ma in terra straniera lo è ancor di più.
E penso che sarebbe migliore, il nostro mondo, se tutte le persone in viaggio potessero provare questa bella sensazione.

Nella foto: io in estasi dinanzi al Williams Tower, alcuni momenti trascorsi con Josefa, Adelaide e Ximena, l’ingresso allo Space Center (eh sì, sono andata anche alla NASA!) e uno scatto rubato durante le riprese.

Ciao Houston, alla prossima meta!