Con il passare dei giorni Houston mi ha mostrato un volto diverso, e la freddezza iniziale (non climatica!) si è dissolta pian piano. Sabato, ad esempio, ho passato tutta la giornata spostandomi da una parte all’altra con i mezzi pubblici, ed è stata un’avventura nell’avventura. Non avevo Internet, non mi funzionava Google Maps, ogni tanto che trovavo qualche Wifi riuscivo a geolocalizzarmi, così da puntare alla prossima destinazione.
Gli autisti, anzi, le autiste (perché ho trovato soprattutto donzelle alla guida), mi hanno preso in simpatia, guidandomi nei vari spostamenti. Sui mezzi si possono capire tante cose della città, che c’è un ritmo lento, ad esempio. E nessuno ha fretta di salire, e neppure di scendere.
Ma sono state le persone incrociate in questi giorni che, come sempre, hanno dato un senso alla mia permanenza sul suolo americano.
Uno dei primi giorni ho incontrato Moises, è un giornalista dell’AFP, è peruviano e fa il corrispondente da Houston da 5 mesi, dopo esser stato vari anni tra Panama e Cuba (un curriculum niente male il suo…). Mi ha raccontato un po’ le sue impressioni, e di tutte le contraddizioni insite nella società americana. E mi ha dato degli spunti e delle chiavi di lettura interessanti, che io non sarei stata in grado di cogliere in così poco tempo.
E poi ho avuto la fortuna di incontrare Adelaide, anche lei è una collega, viene dal Nicaragua, e da un anno ha deciso di ripartire da zero negli States. Fare la giornalista in un paese dove non c’è stabilità politica, dove i colpi di Stato sono all’ordine del giorno, e non c’è libertà di informazione beh… non è uno scherzo, e mi ha fatto riflettere su alcune fortune che, troppo spesso, ci dimentichiamo di possedere.
Adelaide ha riscritto tutta la sua vita da un giorno all’altro: è arrivata a Houston per amore. Il suo attuale marito, cresciuto qui, ma domenicano di origini, lo ha conosciuto attraverso un’altra passione che lei coltiva (del resto alzi la mano il giornalista che non abbia anche un’altra professione!): è un’esperta di “terapia di bosco” (ha a che fare con la meditazione, i suoni della natura etc…). Lui si è imbattuto nel suo profilo online, l’ha contattata e si sono iniziati a sentire. Si sono incontrati per un motivo professionale non mi ricordo in quale paese del Centro America, hanno trascorso insieme una settimana ed è nato qualcosa. Un qualcosa che è cresciuto poi, nel corso di sei mesi, che hanno speso conoscendosi a distanza, giorno dopo giorno. Finché, un giorno, lui l’ha raggiunta a Santo Domingo (dove lei stava portando avanti un progetto sulla sostenibilità), e le ha chiesto di sposarla. Ed eccoli, oggi, insieme, ad un anno di distanza, a scrivere un pezzo di vita insieme.
E come non parlare di Ximena: mi ha aperto le porte di casa sua, mi ha fatto conoscere i mille volti di questa città, facendomi sperimentare anche prelibatezze culinarie (il barbecue e la cucina TexMex) , mi ha mostrato dal di dentro un progetto pilota che ha costruito da zero sull’empowerment femminile, e destinato a fare molta strada. Ma soprattutto, quello che mi ha colpito di lei, è la devozione e l’amore con cui accudisce sua mamma. Josefa, classe 1933, è una donna di grande cultura e fede. E’ boliviana,di professione faceva l’insegnante e ha viaggiato moltissimo, sia in Europa che in America. E proprio oggi, mercoledì 12 luglio, alla veneranda età di 90 anni, acquisirà la cittadinanza statunitense, con una cerimonia ad hoc insieme ad altre 200 persone.
Vederle insieme, osservarle nella quotidianità, in questo rapporto così limpido, totalizzante, di una tenerezza infinita, è stata per me un’autentica lezione di vita.
Mi hanno fatto sentire a casa, sin dal primo momento.
Dovevo andarmene di sera, per viaggiare di notte con il bus. Volevo prendere l’Uber ma non c’è stato verso, hanno insistito per accompagnarmi. Il mio autobus partiva a mezzanotte (orario comodo insomma…), loro sono uscite in pigiama e alle 23 ci siamo messe in macchina.
Arrivate al punto di incontro, che ho scoperto non essere una stazione, ma un parcheggio sulla freeway, Josefa doveva andare in bagno, e così, tutte e tre siamo andate al punto ristoro aperto 24 su 24.
Ad accoglierci c’era un ragazzo che parlava un inglese incredibilmente ben comprensibile: era afghano, ecco perché lo capivo alla perfezione. Lui le ha tranquillizzate, dicendo che potevano andare via, che lì era un posto sicuro ed io avrei potuto aspettare l’orario stabilito rimanendo dentro il negozio. Così le ho salutate, e l’ultima mezz’ora l’ho passata in questa specie di 7Eleven. Il ragazzo era discreto, non mi dava molta confidenza, ma era premuroso: mi ha offerto il caffé,e gli ultimi dieci minuti mi ha accompagnato fuori, alla fermata, aspettando che arrivasse l’autobus.
Avrei voluto fargli domande, conoscere la sua storia, avrei voluto dirgli che conoscevo il suo paese, che c’ero stata ben due volte, e che mi dispiaceva enormemente per la deriva che aveva preso negli ultimi due anni con la presa dei talebani. Ma non gli ho detto nulla, ho preferito tacere e godermi quel silenzio di attesa.
E’ questa l’immagine che porterò dentro di me di Houston, come un’istantanea del viaggio: una signora di 90 anni e sua figlia, in pigiama, che alle 11 di sera mi accompagnano nel mezzo del nowhere, ed un ragazzo afghano che mi fa compagnia e mi offre un caffé aspettando in silenzio l’autobus delle 00. E’ sempre bello sentirsi circondati da gentilezza, ma in terra straniera lo è ancor di più.
E penso che sarebbe migliore, il nostro mondo, se tutte le persone in viaggio potessero provare questa bella sensazione.
Nella foto: io in estasi dinanzi al Williams Tower, alcuni momenti trascorsi con Josefa, Adelaide e Ximena, l’ingresso allo Space Center (eh sì, sono andata anche alla NASA!) e uno scatto rubato durante le riprese.
Ciao Houston, alla prossima meta!