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DA DOVE INIZIA IL MURO, RACCONTI DA TIJUANA

“Da qui inizia la patria”, dice un cartello all’uscita dell’aeroporto. La stessa scritta la vedrò poi, nei giorni seguenti, sparsa nei vari punti della città.
Perché è vero che Tijuana è la porta del Messico, lo è sempre stata. Siamo all’estremo ovest del paese , nella Bassa California, sull’Oceano Pacifico.
La frontiera con gli Stati Uniti la separa da San Diego, con la quale forma un’area metropolitana che vanta oltre 5 milioni di abitanti.

Già, la frontiera. Non è fisica qui.Non ci sono fiumi o montagne a separare uno Stato dall’altro, ma un muro di lastre di ferro ormai arrugginite.

Parte proprio dall’oceano, e poi penetra la terra, dividendola per quasi mille km. Poi la palla passa al fiume, al Rio Grande, ma questa è un’altra storia (vedi le puntate precedenti ndr.!).

I pilastri di ferro si insinuano fino al mare, separando anche le acque di questi due stati. È un simbolo forte, forse il più emblematico in assoluto , di cosa significhi dividere .

La sua fama la precede. Tijuana infatti viene annoverata quale uno tra i posti più pericolosi del Messico. Del resto tra traffico di droga, traffico di merci e traffico di esseri umani beh…c’è l’imbarazzo della scelta.

Io, ironia della sorte , da subito ho percepito un senso di sicurezza misto a tranquillità, a scapito di tutto.

Forse perché quando inizi a guardare questo lato del mondo con i loro occhi, lasciandoti alle spalle il tuo sguardo occidentale così permeato da giudizi,ecco che tutto cambia.
Entri nel ritmo, lo senti tuo. Per prendere i mezzi pubblici, ad esempio, non ci sono le fermate per strada, tu alzi la mano e loro si fermano. Le direzioni sono scritte a caratteri cubitali , a tinte variopinte, e questi furgoncini svettano a tutta velocità. Mi son divertita troppo a prenderli, dopo averne capito il funzionamento . Ogni corsa costava 15 pesos, meno di un euro.
Ma mi son mossa anche camminando, perché qui ho beccato 15 gradi in meno rispetto al Texas e a Monterrey, non era faticoso, ma una continua scoperta, macinare chilometri.
Tijuana è una metropoli, è come tutte le metropoli è in fermento, e piena di gente in movimento.
Tutti si riversano negli incroci, con una particolarità oserei dire “Latina”.
La maggior parte delle persone tagliano, facendo una diagonale, anziché percorrere i due lati. E quindi diciamo che è un gioco a non scontrarsi.

Come in tutte le grandi città, peró, il pericolo è sempre in agguato, e basta spostarsi di isolato e cambia completamente tutto.

A livello migratorio è una grande vetrina, ci sono ben trenta centri per migranti , cambiano parecchio tra l’uno e l’altro,ma diciamo che qui ho trovato un assistenzialismo che a Matamoros manca completamente.

Il primo che ho visitato è stato Espacio Migrante, si trova nella zona nord, poco distante dall’attraversamento pedonale del varco di San Ysidro (che porta negli USA). Ho perlustrato la zona in pieno giorno,facendo foto, video e interviste. Poi ho parlato con una delle responsabili del centro, e mi ha detto che è una zona critica e, appena due settimane fa, c’è stata una forte sparatoria , “lo vedi, i proiettili sono entrati anche qui- mi ha detto indicandomi i fori nel muro -fortuna che nessuna di noi era in ufficio in quel momento”.

Questa cosa della sparatoria mi ha suggestionato (del resto sento parlare di armi da quando ho messo piede negli States!).
Quella sera ho notato che anche nella mia stanza di hotel c’erano dei forellini sulla tenda. Improvvisamente mi sono sentita dentro uno di quei film polizieschi in cui durante gli inseguimenti nei pianerottoli gli assassini irrompono nelle camere di malcapitati mettendo tutto ko. Beh, per non saper né leggere né scrivere io ho chiuso con due mandate e messo la valigia sulla porta, dormendo così sonni tranquilli!

Per il resto di storie ne ho trovate, molte. La cosa che più mi ha colpito sono le forme di razzismo verso la comunità migrante di Haiti.
Vengono discriminati per il loro colore della pelle, e per essere gli unici del “continente” a non parlare spagnolo, a dispetto di tutti gli altri provenienti dal Centro America o dall’America Latina. Anche per i lavori a giornata gli haitiani sono i più richiesti, e vengono pagati meno. Insomma, anche in questa guerra tra poveri il tema della razza è radicato. Mi chiedo se il razzismo sia davvero insito nel nostro DNA,e se ci sia un modo per poterlo sconfiggere.

L’ultimo giorno mi sono regalata un pranzo in riva al mare, sulla spiaggia di Tijuana. Stavo mangiando nella terrazza di un ristorante in cui vedevo anche le spiagge di San Diego, al di là del muro. A un certo punto sento vociferare, tutti iniziano a fissare il mare e ad indicare un preciso punto. C’è un delfino, non troppo distante dalla riva, che svetta di tanto in tanto con i suoi salti oltre le onde. Va da sud verso nord,direzione muro. “Chissà se lo lasceranno passare,almeno lui”, dice ridendo una signora al tavolo dietro al mio. Poi lo perdiamo di vista, esce dai nostri radar visivi, “tranquille, si sta nascondendo dalla polizia di frontiera,appena vede via libera attraversa!”, afferma l’altra.