diario di viaggio

Una casa a Puerto Madero

Tornare a Puerto Madero da Gina e Carlo, ogni volta, significava per me tornare a casa. Lì avevo una stanza tutta mia, c’era la valigia, c’era lo zaino e l’attrezzatura fotografica. C’erano loro.
L’ultima sera mi hanno detto di invitare anche Alejandro a cena. Dovevo vederlo per salutarlo, lo avevo costretto a venire fin sotto casa, perché avevo un piede ko, e non riuscivo a camminare. Ha accettato.
Abbiamo mangiato gnocchi, polpette, cavolini di Bruxelles e la serata è volata rievocando vecchie dive italiane, campioni argentini, uruguayani e cileni che hanno fatto grandi Roma e Lazio e discorsi su colonialismo e comunismo. 
Mentre andavamo via, sull’uscio della porta, Alejandro mi ha detto: “Che bello aver trascorso una serata in famiglia, era da tanto che non mi succedeva”.
Aveva ragione.
Credo che sia stata questa la cosa più bella di questo viaggio: l’essermi sentita sempre accolta, a mio agio, non aver mai provato sulla mia pelle la sensazione di essere straniera. 
Ero a casa, mi sono sempre sentita a casa, quando rientravo distrutta la sera e mi sedevo a cena con Carlo e Gina, oppure nelle mie giornate alla Villa31, quando prendevo parte alle grandi tavolate, o quando Padre Guille apparecchiava per due nella sua cucina, e tra una portata e l’altra continuava a raccontarmi di quei luoghi. E mi sentivo a casa durante le serate passate con Dario e sua nonna a sorseggiare mate. 
E’ bello sentirsi a casa, è una sensazione così semplice da risultare quasi naturale, eppure come ci sentiamo stravolti quando viene meno, ed allora sì, è in quel preciso momento che ne riconosciamo l’importanza.

Avevo chiesto ad Alejandro di portarmi un paio di libri della sua casa editrice, come ricordo. Lui ne ha scelti tre, e si è presentato anche con un regalo: un quaderno con i fogli rosa e la copertina di cartone riciclato.
“Devi riprendere a scrivere seriamente – mi ha detto – non intendo appunti o spunti per i tuoi articoli, queste pagine hanno il colore del cuore, e vanno riempite soltanto di sentimenti ed emozioni. E lascia perdere i social network per favore, in rete c’è già un surplus di qualunquismo e falso moralismo, non serve anche il tuo”.  
Ed ecco che rientro in Italia con un compito in più, quello di riappropriarmi della carta, tornando a scrivere sulle pagine rosa di un quaderno fatto con cartone riciclato.

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Avenida Vertis

Darìo è stato il primo a parlarmi dell’esistenza delle Villas in Argentina, a farmi nascere la curiosità di scoprire questi luoghi “che non sono come le favelas brasiliane, sono un mondo a sé”, aveva tenuto a precisare.
Aveva seguito i miei racconti sulla Villa31, ogni sera tentavo di mandargli un messaggio, con le mie impressioni, e lui, seppur in maniera cauta, mi diceva che a Mar del Plata avrei trovato tutt’altro. “Perché alla Villa31 stanno facendo un processo di urbanizzazione che va avanti da dieci anni, qui invece è tutto fermo”, mi diceva.
I primi giorni a Mar del Plata sono passati velocemente, stamattina invece ci ha accolti una giornata uggiosa, di quelle con un cielo grigio che non promette nulla di buono. Aveva piovuto tutta la notte. Io ero abbastanza sconsolata. “Non pioverà di nuovo, è arrivato il nostro momento, possiamo uscire!”, mi ha detto, ed ecco tutt’un tratto illuminarsi i miei occhi.
Non abita lontano dalla Villa, l’avevamo vista passando con l’autobus, ma mi ha detto che non si era mai avvicinato lì, tantomeno addentrato. Ci sono due villas vicino casa sua, sull’avenida Vertis, e la storia sul loro conto è davvero paradossale. Sorgono sui binari del treno, per la precisione del treno merci che collegava il porto di Mar del Plata con Buenos Aires. A un certo punto però la gente ha iniziato ad occupare quel lembo di terra, a insediarsi proprio su quei binari, ed ecco che la circolazione del treno è stata interrotta. Ora il traffico merci viaggia per camion.
Mi ha fatto uscire senza niente, in tasca solo la tessera dell’autobus, una banconota e il telefono argentino. Il Huawei se lo è messo in tasca lui, perché nelle mie non entrava.
“Questo telefono qui non è ancora arrivato, immaginati quanto possa fare gola a chi non ha neanche un tetto sulla testa”, mi aveva detto. Era un tentativo pacato per dissuadermi a lasciarlo a casa, ma quel monito non era valso: okay la reflex, ma il telefono veniva con noi.
Camminavamo, le strade erano piane, ampie e asfaltate, ma quando ci siamo avvicinati alle villas beh… lo scenario è cambiato prepotentemente. Mi sono tornati in mente gli slums di Haiti, quei quartieri fantasma che avevo visitato a Port au Prince tanti anni fa. Case di lamiera a destra e sinistra, polli, galline e cani vagavano qua e là, la perfezione delle cuadras aveva lasciato il posto al disordine più completo, con cunicoli che diventavano strade. Abitazioni di lamiera arroccate le une sulle altre. Ce ne erano alcune di mattoni e cemento, ma ben poche. Ho visto case costruite appoggiate ai pali dell’alta tensione, e mi chiedevo come si potesse anche solo minimamente immaginare di insediarsi in un luogo simile.
Camminavamo su un pantano, la pioggia aveva creato tutta melma, e riuscire ad evitare le pozzanghere era impresa ardua. Ma ero con Dario, mi sentivo tranquilla, gli afferravo il braccio e camminavamo a braccetto. Nei punti nei quali il terreno era più scivoloso facevo ancora più forza nella presa, e lui sosteneva entrambi.
Proseguivamo adagio, mi ha detto che non si sarebbe mai sognato di trovarsi in quel luogo prima di allora, e immagino le imprecazioni che mi stava lanciando in cuor suo.
La giornata uggiosa ha giocato a nostro favore, non per il tragitto ovviamente, ma per il fatto che per strada non c’era quasi nessuno, oltre agli animali. E così di tanto in tanto ci fermavamo, gli mettevo una mano in tasca e prendevo il cellulare, formavamo una V e iniziavo a fare foto e video. Tanto giravo io con il busto quanto roteava lui, tentando di coprire il più possibile il telefono, ma tenendo allo stesso tempo la visuale più ampia possibile.
Quando davanti a noi è riapparsa la strada asfaltata, abbiamo tirato entrambi un sospiro di sollievo, godendo della sensazione di sentire i piedi ben saldi a terra.

Nella foto partendo dal basso a sinistra e proseguendo in senso orario: un primo piano del mate, senza dubbio la bevanda che ha più caratterizzato la mia permanenza a Mar del Plata. A seguire – a grande richiesta! - una foto ricordo con la zia e la nonna di Dario; un selfie davanti al Teatro Colon, e poi una foto con Anna, una signora che mi ha fatto morire dalle risate raccontandoci le sue disavventure in un corso di teatro che sta frequentando in questi giorni. Infine ultima foto ricordo alle 2 di notte alla stazione degli autobus, mezzi addormentati, con Dario e sua nonna, aspettando l’arrivo del bus che mi avrebbe riportato a Buenos Aires.

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Tecnopolis nella "Città felice"

Mar del Plata viene chiamata “la città felice” E’ una delle più grandi dell’Argentina, vive di turismo e pesca, sfiora un milione di abitanti, e durante l’estate la popolazione triplica, perché tutti da Buenos Aires si riversano nelle sue spiagge. “Hai fatto bene a venire con il freddo, almeno puoi vedere un po’ la città, d’estate qui è una locura, le spiagge si riempiono fino al collasso”, mi racconta Dario mentre usciamo di casa. E’ quasi mezzogiorno, ci accoglie un sole limpido e una giornata tersa. Ci guardiamo e tiriamo un sospiro di sollievo.
Perché il programma di oggi era già deciso da una settimana, e non c’entra niente con il mio arrivo. Dario aveva promesso ai suoi figli di portarli a Tecnopolis. E’ una mega esposizione di scienza, tecnologia, industria e arte che si trova a Buenos Aires. In questi giorni però ci sono le vacanze di inverno, e quindi alcuni padiglioni di questa grande opera sono stati spostati a Mar del Plata.
L’idea di passare una giornata con i suoi figli mi intimoriva un po’, avrei di gran lunga preferito visitare l’ennesima Villa cercando di fare l’equilibrista. Ma noi adulti si sa, ci facciamo tanti problemi che non esistono. E la giornata è stata piacevole e molto divertente.
All’esterno, nel parco di Tecnopolis, c’erano dei dinosauri giganti che si muovevano e facevano suoni. Tutti i bambini ne erano conquistati. All’interno dei padiglioni c’era di tutto: esperimenti, giochi didattici e virtuali. Leòn in particolare è stato conquistato dai pendoli e dalla spiegazione dell’energia cinetica. Eluney andava da una parte all’altra, faceva foto a tutti gli stand, ma quelli che le piacevano di più erano gli esperimenti di laboratorio, con le bottigliette dei vari colori.
Tutti e quattro abbiamo fatto la prova di riflessi che mostrava la differenza tra quando guidi con il telefonino e quando senza. Diciamo che nello specifico i miei riflessi non erano proprio al top, non ho fatto una prestazione superlativa, ma lo attribuisco alla stanchezza, sicuramente in un altro momento avrei brillato!

Abbiamo mangiato hamburgesa e papas fritas per pranzo (eh sì, in questi giorni qui la dieta è andata a farsi friggere).
Sono in gamba i figli di Dario, Eluney ha 13 anni, il suo nome in mapuche significa “sorpresa”, ed è pura dolcezza, è una bambina pacata e mai fuori posto.
Leon di anni ne ha quasi 12, lui è un leone di nome e di fatto, ha una grinta da far invidia, non perde un colpo, è sempre sul pezzo.
Per Leon “Europa = Spagna”. Mi hanno fatto tantissime domande sui posti che ho visitato, volevano sapere tutto di paesi che non avevano neanche sentito nominare.
E poi si sono divertiti quando gli ho parlato del Natale, che da me si passa a casa, in famiglia, davanti al caminetto acceso, e si aspetta la mezzanotte per andare a messa. “Qui a mezzanotte si fanno i fuochi d’artificio, e il Natale si festeggia in spiaggia, altro che in chiesa!”, mi ha detto Leon tutto divertito. Ed anche la Pasqua, per loro, è un giorno come un altro, “se sei brava ti arriva l’uovo di cioccolata”, mi racconta Eluney. , ma la scuola non chiude, quindi per loro la routine non cambia. E insomma, in questo viaggio sono passata da un estremo all’altro: dalla Villa31 con le varie Virgen in tutti i lati, e queste statuette che vanno da casa in casa, compiendo pellegrinaggi tra nazioni, ad una normale famiglia di Mar del Plata che non ci pensa minimamente a rinunciare ad una giornata di spiaggia per vivere la Natività.
Finita la visita a Tecnopolis Dario ne ha approfittato per mostrarmi il centro polisportivo. Leon e Eluney hanno subito puntato un’altalena, e lì ci siamo diretti. C’era una panca di legno, sorretta da questi due tubi di ferro. Però, anziché andare avanti e indietro, l’altalena si muoveva da destra a sinistra. Loro si sono seduti, e noi abbiamo iniziato a spingerli. Poi hanno detto che dovevamo farlo tutti insieme, ed ecco che ci siamo seduti alle due estremità, ed abbiamo iniziato a dondolare di qua e di là. Io mi reggevo al palo, ma Eluney mi ha scovato quasi subito: “No! Così non vale! Devi rimanere in equilibrio e reggerti con le mani solo alla panca, altrimenti non ti diverti”, mi ha detto balzando giù, e costringendo suo fratello a fare lo stesso. “Ora rimangono solo papà e Romina, e noi spingiamo”, si sono detti tutti gasati. Ed ecco un’altra istantanea di questo viaggio: dondolare su un’altalena che va da destra a sinistra, reggendomi con le mani dietro la panca e chiedendo a Leon ed Eluney di non spingere troppo forte.

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Los lobos di Mar del Plata

La nonna di Dario sfoglia, seduta dall’altra parte del tavolo, una rivista di gossip, ed inizia a leggere un articolo su una coppia che ha quaranta anni di differenza e che ha avuto due gemelle. Ha 80 anni la nonna di Dario, il corridoio dove è posizionato il tavolo è buio e la luce arriva solo dalla cucina e dalla stanza da letto, ma lei legge spedita, con i suoi occhiali. Ha iniziato a lavorare quando aveva 5 anni, “accompagnavo mia mamma che lavorava in un hotel, io stiravo le lenzuola”, adesso continua a fare la sarta, ha il suo astuccio con ago e filo e fa orli, taglia, rattoppa. Legge spedita ad alta voce, si sta appassionando alla storia di questa coppia, alterna con enfasi la voce della domanda a quella della risposta. Mi fa partecipe, cerca gesti di approvazione. Io sorrido, e penso a quanto sia speciale il mondo, e la vita, nel suo senso più ampio.
Dario è dall’altra parte della stanza, è sparito sotto il letto, dorme. E’ da ieri che non si ferma, da quando sono arrivata. Non avrei mai pensato in vita mia che un giorno avrei conosciuto sua nonna. “Siete tutti e due del leone, ti piacerà e tu le piacerai”, mi aveva detto il giorno prima di arrivare. Io ero un po’ nervosa, c’è stato un momento nel quale avevo persino pensato di non andare più a trovarlo. Un conto è arrivare in Argentina, ma un conto è andare da lui, e fare un passo indietro di tredici anni. Già, tredici anni. Tanti ne sono passati dall’ultima volta che ci siamo visti.
Gli ho chiesto se mi aiutava a cercare un albergo dove alloggiare. Non ne ha voluto sapere, “vieni a stare da me, conviveremo con mia nonna”, mi ha detto.
Quando lo conobbi avevo 23 anni, frequentavo l’ultimo anno di università, ero reduce dall’Erasmus in Spagna. Amavo quella lingua che avevo appena imparato a parlare fluentemente, e quindi, quando nel mio paese, per il festival del folclore, mi dissero che potevo fare la guida del gruppo dell’Argentina, beh...non mi contenevo dalla gioia!
L’incontro con Dario e i suoi amici diede un’impronta precisa a quel che poi fu il cammino della mia vita. L’entusiasmo, la loro voglia di vivere, i valori, quegli abbracci così spontanei e sinceri che arrivavano in ogni momento della giornata, la purezza dei sentimenti beh… mi fecero capire la bellezza del mondo, mi diedero la spinta ad aprirmi agli altri, a viaggiare, per cercare di conoscere a tutto tondo le altre culture.

E così adesso, tornare a vederlo mi creava un mix di emozioni difficili da definire. Razionalmente pensavo a quanta strada avevamo fatto entrambi. Ci salutammo nel settembre 2006, un mese dopo veniva pubblicato il mio primo articolo, un mese dopo iniziavo a fare la giornalista. Anche la vita di Dario sarebbe cambiata da lì a pochi mesi: conobbe una ragazza e dopo poco ebbe due figli da lei.
Temevo il momento nel quale ci saremmo rivisti, ed invece mi è sembrata la cosa più naturale del mondo. Mi è venuto a prendere al Terminal degli autobus, ci siamo salutati, mi ha preso la borsa e abbiamo iniziato a camminare per raggiungere la fermata del Colectivo. Mi avevano avvisato che era freddo Mar del Plata, di norma ci sono sempre 4-5 gradi in meno di Buenos Aires, ma la temperatura non mi sembrava ostica. Come due amici che non si vedono da un po’, e ne approfittano per aggiornarsi sulle ultime news, così noi, abbiamo iniziato a parlare del più e del meno, tralasciando tempo e spazio.

Siamo andati a casa sua, ho conosciuto sua nonna, abbiamo pranzato con milanesa e insalata e poi siamo riusciti, tornando in centro. Portavamo due buste con i suoi vestiti di scena. E’ un ballerino Dario e quella sera c’era l’esibizione del suo gruppo di ballo al Teatro Colon. Ma avevamo quasi due ore di tempo per girare prima del grande evento. Mi ha fatto fare la foto con los lobos , “Sennò la gente non ci crede che sei venuta a Mar del Plata”, mi ha detto. Mi ha portato a passeggiare sulla Ramblas, a vedere il Casino, la Cattedrale, l’Auditorium, ed eccoci anche sull’oceano. Sono voluta arrivare fino al punto più esposto. C’era tanto vento, il freddo ti tagliava la pelle, arrivavano gli schizzi delle onde, ma io mi sentivo felice. “L’Italia è lì, in quella direzione”, mi ha detto indicando davanti a noi. E’ vero, l’Italia era lì davanti, c’era l’Oceano da attraversare, e varie migliaia di km di terra ferma. Ma in fondo era proprio davanti a me, seguendo la linea tracciata dalla sua mano. Tutto è relativo in fondo, tutto può essere vicino, perché ci spaventa così la distanza?

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I viaggi li fanno le persone

I viaggi li fanno le persone, non i luoghi, e se dovessi scegliere delle instantaee per questo viaggio inserirei sicuramente quella in cui bevo mate con Inés, che mi ha aperto le porte di casa sua.
Inés é la mamma di Magdalena, e ha i figli sparsi nel mondo. Uno in Australia, una in Perú, e Magdalena in Italia appunto.
Dopo tanto tempo due dei tre fratelli sono riusciti a trovarsi a Buenos Aires nello stesso momento, mancava Magdalena, e allora mi ha mandato in sua rappresentanza, con una busta piena di regalini, lettere e cartoline per tutti. É stato bello respirare quel clima familiare, sentirsi in famiglia, vedere la gioia negli occhi di Inés per quella casa in cui dopo tanto tempo il silenzio lasciava spazio ad un andirivieni di gente che entrava e usciva.
Il nipote di Magdalena é un portento, ha fiuto e intuito e arriva alle cose prima degli altri. Sua mamma adesso fa la giornalista in Perù, mi ha detto che prima viaggiava molto, ma da quando ha un figlio ha rivalutato le priorità della vita. Mi raccontava che in Perù adesso ci sono molti venezuelani, il Perù é il paese che ne ha accolti di più. Molti si riversano nelle strade, e cercano di sopravvivere come possono. Tanti sono quelli che fanno musica, mi ha spiegato, soprattutto classica. Ed é per questo che nelle strade di Lima adesso si sente arpeggiare, suonare il violino etc.

Un'altra instantanea di questo viaggio non può che essere con Carolina, poche ore prima, quando, dopo avermi portato a spasso per il quartiere Palermo ci siamo concesse un caffè al bar del Museo di Evita.
Vorrebbe venire in Italia Carolina, vivere a Milano, e lavorare o di giornalismo o con il tema della migrazione. Le ho detto che entrambe le strade sono adesso impercorribili, deve trovare un piano C, oppure chiedere un intervento congiunto di tutte le statuette di Virgen per far sì che in Italia cambi velocemente il quadro politico!

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Un giorno da turista

Dopo giornate intense alla Villa31 oggi ho deciso di fare per 24 ore la turista. Sono andata a vedere El caminito e La Boca, con una guida d'eccezione, Alejandro.
L'ho conosciuto il giorno dopo il mio arrivo a Buenos Aires, l' avevo contattato per un'intervista e lui, seppur un po' a fatica, aveva accettato.
All'inizio davanti alla videocamera era burbero e visivamente scocciato, poi piano piano si é lasciato andare, anche perché ha capito che io non mollavo, e senza la sua collaborazione quel martirio sarebbe durato in eterno..
Ci siamo risentiti sporadicamente nei giorni seguenti, gli ho chiesto se mi poteva accompagnava a vedere La Boca, che é il suo quartiere. Lui mi ha dato conferma solo a mezzanotte della sera prima.
Ah! Alejandro ha un'altra caratteristica : va in giro senza cellulare. Ti dá appuntamento e lì si fa trovare, non contempla imprevisti.
La prima volta non mi sono preoccupata più di tanto, l'appuntamento era nella sua libreria, e mi aveva accompagnato Fernando in macchina, sincerandosi che il posto esistesse realmente.
Oggi però dovevamo incontrarci in un parco che lui ha definito gigante, e dopo varie trattative sono riuscita a spuntarla per vederci all'angolo tra due vie. Ho cercato di ridurre al minimo il rischio dell'errore, e ce l'ho fatta.
Alejandro ha un umorismo molto British, ti prende in giro senza scomporsi, fa le battute senza variare il tono di voce, si pone sempre un gradino più su, non ti fa un complimento neanche a pagarlo, eppure a me é stato subito simpatico, perché credo che si tratti di una corazza che si sia cucito addosso per nascondere la solitudine.
Ed anche a gesti caspita... non ti da soddisfazione!
Io ero con la borsa, zaino e macchina fotografica, mi ha visto in difficoltà ma era troppo banale chiedere " ti posso aiutare", lui infatti mi ha detto:" Dammi lo zaino che sembri troppo una turista, e rischio che derubino anche me" .
Ma la forma poco importa in fondo, quel che conta é la sostanza : e così io nei tragitti lunghi gli davo zaino e macchina fotografica, e che sollievo camminare senza portare alcun peso!

La Boca é un quartiere abbastanza vecchio, pare che sia stato creato dai genovesi. El Caminito é molto folcloristico con le sue case colorate, mette allegria e sa tanto di America Latina. Siamo andati anche allo stadio del Boca (pare che De Rossi non sia ancora pervenuto ).
A pranzo abbiamo mangiato in un ristorante pieno di foto di personaggi famosi e sciarpe di tutte le squadre di calcio. Poi mi ha accompagnato a prendere il colectivo (bus), per spostarmi più a nord, quartiere Recoleta, dove ad attendermi c'era Carolina.
Carolina é l'opposto di Alejandro, fa di tutto per metterti a tuo agio, cerca di venire incontro a tutte le tue esigenze, e di ottimizzare i tempi per vedere il più possibile.
Lei lavora con i migranti, cura le pratiche per il riconoscimento dello status di rifugiato etc., e non potete immaginare quanto sia stato interessante parlare con lei, e capire quante nazionalità ci sono qui, non solo i miei amici Paraguaiani, ma anche da Haiti, Venezuela, cinesi - ovviamente - e tanti nigeriani, camerunensi e senegalesi. Vivono in un quartiere poco distante da La Boca, non proprio raccomandabile, affittano appartamenti piccoli dove vi si insediano in tanti.. Una storia che mi pare di aver sentito già da qualche altra parte, chissà come mai..!
Insomma, potrei parlare con ore con Carolina, e non esaurire mai le mie domande. Mi ha portato a visitare il Cimitero di Recoleta, che fa parte delle cinque cose da vedere assolutamente a Buenos Aires. Io ero un po' perplessa a dire il vero, non é che sia proprio amante dei cimiteri, ma Carolina é il top come guida, mi ha fatto vedere tante cappelle particolari raccontandomi le storie, una sua tutti mi ha colpito: una donna ricca che viveva separata in casa col marito, e al momento di morire ha voluto la stessa lapide del consorte, ma in due direzioni opposte. E quindi c'è la statua di questo signore con la barba, e poi, dal lato opposto, la statua della signora, che dá le spalle a suo marito : "Non lo sopportavo in vita, perché dovrei subirmelo da morta?", pare che abbia detto in più occasioni.

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Una memoria corta

La domenica, e in generale tutto il weekend, la Villa31 è più viva che mai. I ragazzi si riversano nei campi a giocare a calcio, ce ne sono tantissimi, ed è un’allegria. Tra i vari negozietti parte la gara a chi tiene la musica a più alto volume. Nella maggior parte dei casi le casse sono fuori, in strada, ed ecco che la guerra dei decibel si combatte a pochi passi. 
E poi c’è frastuono, lavori in corso da ogni lato, vedi saldatori, muratori, carpentieri, tutti intenti. “Le case qui sono fatte bene, perché la maggior parte degli uomini lavorano nell’edilizia, ed il sabato e la domenica si costruiscono le loro abitazioni. Sono dei gran lavoratori, non si risparmiano, non si concedono giorni liberi”, mi dice Padre Guille. 
E’ forte Padre Guille, è un’istituzione qui. 
Sono vent'anni che vive nella Villa, lo mandó nel 1999 un tal Bergoglio, cardinale di Buenos Aires, e lui da qui non si é più allontanato. Per strada lo fermano tutti, i bambini per un buffetto sulla guancia, gli anziani per una benedizione, donne e uomini per chiedere un favore, e Padre Giulle chiama tutti per nome. Non nega un abbraccio a nessuno, ha sempre parole di conforto, sa ascoltare e dare soluzioni concrete alle persone, ma anche tergiversare e svincolarsi con chi cerca solo lo scontro. 
Camminare con lui significa fermarsi ogni dieci metri, perché c'è sempre qualcuno da salutare. E tutti salutano, rigorosamente, anche me. 
Prima c'é l'abbraccio, il bacio e il "Como estas?", poi eventualmente si passa alle presentazioni ufficiali, con tanto di stretta di mano. Qui é così: prima i gesti, poi le parole. 
Abbiamo girato la Villa da cima a fondo, e sono riuscita a raccogliere tanto materiale video, interviste, foto. C'erano delle stradine off limits, "qui togli tutti e non guardare quei ragazzi seduti all'angolo, stanno spacciando", mi dice, ad un certo punto, abbassando lo sguardo e sospirando. Non si può salvare il mondo intero, lo sa bene anche lui, eppure come é difficile vedere delle vite buttarsi via cosí.Mi racconta storie crude, di famiglie intere devastate dall'alcool e dalla droga, case nelle quali l'unico linguaggio che si impara é quello della violenza. 
"La Villa31 nasce negli anni Trenta - mi racconta - quando arrivarono gli immigrati dall' Italia e dalla Spagna. Lavoravano al porto, e siccome erano poveri e non sapevano come sopravvivere si stabilirono in queste terre abbandonate".
Ed ecco, un'altra notizia che può apparire sensazionale ai giorni nostri : c'é stato un tempo nel quale gli immigrati erano italiani, alle prese con povertà e miseria. 
Ma la memoria, si sa, a volte fa brutti scherzi, e magicamente dimentica. 

Nelle foto, partendo dall' alto, io che rimango incantata il giorno in cui ho conosciuto Padre Guille; a seguire, in senso orario, un selfie con Blanca. E poi.. eccomi pronta a scendere in campo con la squadra di calcio femminile Carlos Mujica. Cosa ci faccio sul rettangolo verde? Beh, per scoprirlo bisogna aspettare i reportage che usciranno, altrimenti se svelo tutto su Facebook smetto di lavorare !

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Baciata dalla fortuna

Avete presente cosa si prova in quel preciso momento nel quale vorresti che il tempo si fermi perché sai che quello che ti aspetta è qualcosa che ti spaventa, e che potrebbe ribaltare tutto? Guardi un punto fisso e ti concentri sul presente, su quell’istante, sperando di riuscire a congelarlo.
Ecco, io ho vissuto quella sensazione due ore fa all’incirca, quando ero in una casetta dentro la Villa, nella zona della Capilla Virgen de Guadalupe (non ho avuto una vocazione improvvisa, ma se continuo a citare le chiese, è perché nella cartina che mi hanno dato non ci sono i nomi delle strade, ma sono le Capillas gli unici punti di riferimento). Questa zona si trova esattamente nella parte opposta rispetto a dove dormo io, e la casa di Maria non è sulla strada principale (se così si può chiamare), ma molto addentrata, in quelle stradine strette dove non si vede il cielo, tanto sono fitte le abitazioni che, in tutta la loro precarietà, si estendono in altezza. Quando la strada è percorribile soltanto nei due marciapiedi, minuscoli e occupati dalle scale a chiocciola in lamiera, perché al centro stanno “arreglando”, stanno sistemando. Ed ecco che quelle scalinate diventano un perno, agganci uno scalino con la mano, e con il corpo dondoli e ti sposti di centoottanta gradi. Superato l’ostacolo non ne trai giovamento, perché magicamente sul tuo percorso trovi dei cani che sembra non abbiano nessuna intenzione di cederti il passo, alcuni per fortuna hanno la museruola, ma quelli che ne sono sprovvisti beh.. non credo che sia per buona condotta.
Ed in tutto questo piano piano inizia a venire giù acqua. Alzi lo sguardo per vedere se stai passando sotto lo scolo di qualcosa, e ti accorgi di no (per fortuna!!!), è soltanto pioggia.
Il tempo di arrivare a casa di Maria ed ecco che viene giù il finimondo. La pioggia scende battente, picchia sui tetti di lamiera, facendo un rimbombo che dopo un po’ diventa un suono familiare.
Eduardo mi guarda, e mi dice: “Romina, rimaniamo un po’ qui e aspettiamo che la pioggia smetta, va bene?”, io acconsento con gioia, non ho nulla da obiettare. E così dicendo Maria mette a riscaldare l’acqua per preparare il mate.
Il mate è la bevanda tipica di qui, si prende in una coppa speciale, dove c’è una cannuccia di latta. Si versa un po’ di questa erba (tipo the, è bene precisarlo) e si aggiunge poca acqua. E’ una “bebida para compartir”, si beve tutti dalla stessa coppa, e se la prima volta mi è sembrato un po’ strano beh… adesso sono una “mate-dipendente”!
E mentre loro parlano di pellegrinaggi, di Madonnine che devono essere portate da una casa all’altra come benedizione, di parenti che ti assumono a nero (ed è la prima volta che ho sentito un discorso equiparabile all’Italia!), io penso al momento in cui usciremo da qui. Al momento nel quale sarò di nuovo, per strada, a fare l’equilibrista, supponendo che quella simpatica pioggia non stava facendo altro che aggiungere fango al fango.

La giornata era stata perfetta fino a quel momento, e volevo che rimanesse tale.

Il pomeriggio con Eduardo eravamo andati vicino la Capilla de Guadalupe, perché alle tre iniziava il bingo.
Eduardo è un seminarista, e viene alla Villa tutti i fine settimana, fa una sorta di praticantato a quanto ho capito. Ha 40 anni, è entrato in seminario a 35. Prima aveva studiato, si era laureato come “contador”, lavorava ed aveva il suo salario. Poi ha capito che non era la sua strada, si è avvicinato alla chiesa del suo quartiere, e ha scoperto la vocazione e la bellezza di dedicare la propria vita agli altri (e a Dio).
Il bingo lo ha organizzato un gruppo di donne della parrocchia, tra le quali ci sono Maria e Ines, con il ricavato vogliono fare un pellegrinaggio alla Virgen de Guadalupe, in Paraguay, e porteranno anche la statua che sta nella cappella. A quanto pare queste statue viaggiano più delle persone in America Latina!
La tombolata è durata un’oretta e mezza circa, e c’era tanta gente. Avevamo messo un tavolo grande con delle sedie, che subito si è riempito.
Mi piaceva vedere la loro concentrazione, quella stessa che vedi nella gente che passa i pomeriggi facendo la fila al Superenalotto nei centri commerciali, o nei vari tabaccai e punti Sisal.
Ma qui c’era una componente in più: il divertimento, l’aiutare il vicino a controllare i numeri, lasciare i bambini a giocare tutti insieme strillare ai bambini per farli stare in silenzio, altrimenti si perde il filo. Una tombolata di quartiere, la definirei così.

Una volta a casa, mentre fuori pioveva, le donne si sono messe a fare i conti del Bingo, quali erano i costi, quali i guadagni. Avevamo preparato anche delle empanadas e la Zopa da vendere ma, al contrario delle cartelle della tombola, non avevano riscosso tanto successo. Iniziavano a chiedersi cosa avevano sbagliato. “Ci voleva una persona che si dedicava solo alla vendita del cibo”, suggeriva Eduardo. “Io ho cercato di fare del mio meglio, ma non riuscivo sempre a passare con l’insalatiera a vendere”, rispondeva Ines sconsolata. Facevano i conti di quanto era costato preparare tutte quelle empanadas, ne erano avanzate più della metà. Ed anche la Zopa. Avevano fatto un gran lavoro, si erano spese tanto tra ieri e oggi per andare casa per casa a promuovere il loro bingo. Così ho avuto un’idea: “Quelle che avanzano le compro io, le porto agli altri curas e le mangiamo tutti insieme stasera”. Loro erano molto contente, subito hanno cercato una scatola (delle scarpe) dove poterle mettere, ognuna avvolta in un tovagliolo. Ne ho prese 12, tutte quelle che erano nell’insalatiera, non avevo capito che ne stessero friggendo delle altre. La dozzina costava 250 pesos, ho aperto il portafoglio e mi erano rimaste quasi tutte banconote da 500. Ne ho presa una e gliel’ho data, dicendo che stava bene così. Ma loro non hanno voluto sentire ragioni, non potevo pagare così tanto. E a nulla sono serviti i miei tentativi di spiegare che, da quando sono arrivata, non mi hanno fatto tirare fuori un peso, e quindi per me era un piacere. Alla fine l’hanno spuntata loro, aggiungendomi altre 9 empanadas, 9 perché la scatola non si chiudeva più, altrimenti sarebbero arrivate a 12 così da fare il prezzo pieno. Avrebbero tranquillamente potuto dirmi un prezzo più alto, sapevano delle mie possibilità, o avrebbero quantomeno potuto accettare la mia proposta, visto che lo facevo con piacere. Ma non hanno voluto. La correttezza è un altro valore della loro scala morale, e poco importa se davanti avevano un’europea, mi hanno trattato come una di loro, ed io ne sono rimasta ancora una volta stupita.
Vedendo che l’insalatiera ormai era quasi vuota si sono rianimate, hanno deciso di comprare un paio di empanadas a testa, e così sono finite tutte. “Abbiamo venduto anche tutto il cibo, l’evento è riuscito perfettamente, dobbiamo replicarlo al più presto!”, si dicevano l’un l’altra.
Quando è arrivato il momento di andarcene, perché la pioggia stava rallentando, Edoardo ha preso la scatola con le empanadas, io ho messo il cappuccio e siamo usciti. Forse qualcuno lassù davvero esiste, forse ci ha osservato ed ha apprezzato il gesto delle empanadas, fatto sta che dopo un paio di cuadras “scomode” abbiamo fatto tutte strade asfaltate, dove c’erano pozzanghere, ma nient’altro. “In fondo vivere qui non è proprio male - ho detto a Eduardo - se riesco a camminare persino quando piove è fatta!”, lui mi ha sorriso, e mi ha risposto che se volevo provare l’ebbrezza degli effetti della pioggia bastava girare l’angolo e cambiare strada. Ho deciso di non tentare troppo la sorte, in fondo avevamo una missione da compiere, ed era quella di portare la scatola di empanadas a casa per cena.

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La Villa31

La Villa31 è un quartiere fantasma di Buenos Aires . Non esiste su GoogleMaps, si è sviluppato sotto i cavalcavia dell’autostrada, alla fine del porto e vicino alla stazione degli autobus. Le persone che si sono insediate qui, decenni e decenni fa, erano i famosi migranti dei paesi limitrofi arrivati in cerca di fortuna, e non si sono più spostati. Non c’è un piano di urbanizzazione, sulla carta questo quartiere non risulta, eppure qui vivono oggi oltre cinquantacinque mila persone. Il termine “villa” (che qui si pronuncia rigorosamente VISCIA) può essere considerato un po’ l’equivalente della “favela” brasiliana.
La prima sera alla Villa sono andata alla Capilla Virgen del Rosario, dove ho assistito al secondo giorno di “Novades”, è la veglia dei boliviani che rendono omaggio a Santiago. La festa ufficiale è prevista sabato prossimo. Per nove sere c’è la messa di preparazione e adorazione al santo.
Chi mi segue da un po’ sa quanto la Bolivia mi sia rimasta nel cuore, e non faticherete a capire con quanta gioia ho accolto la proposta di conoscere la comunità boliviana prendendo parte a questa celebrazione.

A dire la messa c’era Padre Agustin. E’ un ragazzo di 33 anni, diacono al momento, sempre con il sorriso stampato sulle labbra. Ogni giovane che decide di diventare sacerdote, oggi, deve avere una grande vocazione, e se poi decide di farlo in un quartiere dimenticato come questo beh…sicuramente ha una spinta in più.

Prima di iniziare la messa mi ha presentato agli altri fedeli. Poi, durante l’omelia, ecco che Padre Agustin pronuncia di nuovo il mio nome. “Romina è venuta dall’Italia, e quest’oggi ha deciso di essere qui con noi. Avrebbe potuto scrivere di Messi, oppure raccontare l’arrivo di De Rossi a Buenos Aires. Sarebbe stato più facile per lei, e sicuramente avrebbe guadagnato di più. Ma Romina, nel suo modo di fare giornalismo ha deciso di venire qui, in mezzo a noi, di raccontare le nostre vite, di condividere questo momento con noi. Ha scelto la strada più difficile, non ha avuto paura, e così dobbiamo fare anche noi”.
Tutti mi guardano con occhi pieni di gratitudine, io non so cosa fare, mi limito a sorridere.
Ci sono persone che mi conoscono da una vita, e a volte mi chiedo se sappiano davvero chi io sia. Ed ecco che piombo qui, in questo angolo dimenticato della capitale argentina, ed un ragazzo che sta per diventare prete e con cui ho scambiato a malapena un paio di battute riesce a darmi una scossa dentro, a farmi sentire importante, anzi, a far sentire importante il mio lavoro. Lo guardo e mi chiedo come ha fatto, con una sola frase, a gratificarmi in questo modo. Non so da quanto tempo non sentivo questo tipo di sensazione.

Seduto vicino a me c’era un signore devoto a Santiago. Sono cinquant’anni che ha lasciato la Bolivia per venire in Argentina. A inizio e fine messa mi ha parlato tantissimo, mi piaceva ascoltarlo, i suoi racconti avevano un non so che di irreale.
E’ stato lui a portare la statua di Santiago in questa cappella, è andato a prenderla insieme ad altri due amici, quando era giovane, in un paesino sul confine.
“Ma come avete fatto a portare la statua? Siete andati in macchina?”, gli chiedo.
“No! E chi poteva permettersi la macchina all’epoca. Siamo andati a prenderla in colectivo (autobus ndr), ma abbiamo comprato due posti a sedere per la statua, così nessuno ci poteva dire niente, e l’abbiamo legata bene bene”. Mi fa sorridere l’immagine di questi tre giovani che attraversano il paese per andare a recuperare la statua con l’autobus.
Sono tanti anni adesso che lui è andato via dalla Villa, non ha voluto che i suoi figli crescessero in questo ambiente, troppo alto il rischio di prendere brutte strade. Ma continua a tornare qui per il suo Santiago: “Mia moglie due anni fa ha avuto il cancro alla mano, ha chiesto aiuto a Santiago, e tutto è finito bene, il cancro è sparito”, e mentre parla non schioda gli occhi dalla statua. Ogni giorno lui e sua moglie impiegano due ore, una per andare e una per tornare, per prendere parte alla funzione in queste nove sere di veglia.

La giornata si è conclusa a casa di Blanca, mangiando asado per festeggiare sua sorella che si è laureata in psicologia sociale. E’ una famiglia numerosa quella di Blanca, 7 sorelle e 3 fratelli, dieci figli in tutto, ed ho perso il conto dei nipoti. Ne è uscita fuori una tavolata lunghissima , con una tan quantità di carne alla brace da poter sfamare un esercito. Blanca non ha esitato a invitarmi, “siamo in tanti, siamo abituati ad aiutarci e a condividere, un piatto in più in questa casa c’è e ci sarà sempre”, mi ha detto sorridendo. A fine serata tutta la famiglia ha insistito affinché rimanessi a dormire da loro, non volevano che me ne andassi in un posto dove poi sarei stata sola. Che gran dose di umanità mi è stata iniettata nelle vene quest’oggi, quanti valori che mi sono stati messi sul piatto della vita, quanto bisogno avevo di riviverli così, in maniera tanto genuina. E quanto sarebbe bello che questi valori tornassero anche nel paese da cui sono partita, quell’Italia così chiusa che non conserva più nulla dell’aura e del fascino che qui ancora gli riconoscono.

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Scoprendo Buenos Aires

Mi piace ascoltare i racconti dei tassisti, hanno un non so che di genuino. Quello che mi è venuto a prendere all’aeroporto, questa volta, si chiamava Camilo, è un ragazzo colombiano, arrivato a Buenos Aires nove anni fa, per studiare. Tanti come lui lo fanno, da ogni lato dell'America Latina, perché in Argentina l'università é pubblica, e costa molto meno che negli altri paesi. "Una nazione che investe nell'educazione ha una marcia in più", ho pensato tra me e me.

I primi giorni a Buenos Aires li ho passati a Puerto Madero, un barrio nuovo, costruito da qualche decennio. È pieno di grattacieli, strade imponenti, insegne colorate, neon e griffe. Mi guardo intorno e sembra lo skyline di una qualsiasi città statunitense, con il fiume nel mezzo che crea affascinanti giochi di luce. Poi ho iniziato ad addentrarmi, ad allontanarmi di qualche cuadras, ed ecco che lo scenario cambia, quello scacchiere ordinato di grattacieli, vetrine e ristoranti lascia il posto alla frenesia quotidiana, ai marciapiedi stretti, alle pareti colorate, alle insegne dei negozi dipinte sui muri anziché su un' insegna a neon. È bella Buenos Aires, trasmette energia vitale. Oggi mi sono girata il quartiere San telmo, un po' bohemien, e poi ho ammirato la Casa Rosada.

Temevo il freddo, oh sì, non ero pronta allo sbalzo termico di 30 gradi. E invece a Buenos Aires mi ha accolto un inverno romano, con giornate di cielo terso, quando il sole non é un nemico che ti tortura, ma un alleato che ti dà sollievo e con i suoi raggi ti accarezza il viso.

Nelle foto, in alto a sinistra, una veduta di Puerto Madero, alle mie spalle c'è il Puente de la Mujer, che simboleggia una coppia che balla il Tango.
In senso orario un selfie con Carlo e Luigia, che mi hanno ospitato in questi primi giorni. Ci siamo conosciuti a Chicago, dieci anni fa, mi aiutarono allora, e mi hanno aperto di nuovo le porte della loro casa oggi. Sono cittadini del mondo, hanno vissuto in tanti paesi, mi affascina ascoltare i loro racconti. Passeggiando per la capitale ho incontrato anche Mafalda&Co, e non poteva mancare la foto ricordo. A seguire un caffè con Gaby, che mi ha fatto trovare un posto per mangiare dietetico, e mi ha svelato molti retroscena sul linguaggio argentino.
E infine.. un simpatico amico baffuto beccato passeggiando per San Telmo!

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