Mi sono sempre chiesta cosa si provi a vivere in un’isola. In un luogo in cui le distanze si accorciano, i tempi si dilatano, e si innesca quel meccanismo per cui, vuoi o non vuoi, ti ritrovi ad essere parte di qualcosa. In questi giorni di permanenza a Lesbo le sto trovando, in un certo senso, delle risposte.
Già all’indomani del mio arrivo, ho iniziato a riconoscere le persone per strada. Mi sono sentita chiamare per nome, sorprendendomi di quanto fosse semplice incrociare i propri passi con quelli degli altri.
Ma è un meccanismo che diventa alienante, quando ti ritrovi chiuso qui per un tempo indefinito, aspettando i tempi di una burocrazia che si diverte a fare il bello e il cattivo tempo. Ci sono persone bloccate su questo lembo di terra da due, tre, quattro anni, in attesa di documenti che si fanno desiderare, risposte che tardano ad arrivare.
Passare anni nell’attesa è qualcosa di terribile. Non si tratta di resilienza, ma è una sorta di annientamento graduale, day by day. Sono tanti i migranti a soffrire di problemi psicologici a Lesbo. Ed imbottirsi di tranquillanti, per molti, è l’unica chiave di sopravvivenza.
Le ascolto le loro storie, lo vedo lo smarrimento nei loro occhi, hanno una voce le loro paure. E io mi sento impotente davanti a ciò.
Come fare a non capirli?
Del resto tutti conosciamo la sensazione di sentirci in trappola, il ricordo del lockdown è ancora ben vivo nella nostra mente (con lo spettro che possa ripiombare da un momento all’altro). Eppure ha un inizio, una fine, ed una marea di escamotage per cercare di combatterlo. Qui invece no, e come se la clessidra avesse esaurito la sabbia, il tempo avesse smesso di scorrere. Un limbo. Dentro o fuori, in attesa di conoscere il proprio destino. O magari quella risposta è già arrivata, ma purtroppo non è stata quella tanto agognata.
Lesbo è la porta più ad est d’Europa. Un’isola greca che si trova ad una manciata di chilometri di distanza dalla Turchia.
La vedi, la costa turca, quando rimani a fissare il mare. E’ lì, immobile, a scrutarti nei giorni in cui il cielo è terso. Come se fosse un costante monito. Quasi a dire: da qui sei riuscito a partire, ma non pensare di poter lasciarmi alle spalle, non credere di avercela fatta.
Ed è un triste presagio, purtroppo, perché da queste parti con i rimpatri e con i respingimenti forzati non si scherza mica, anzi... Ma questa è un’altra storia, che non può aprirsi ed esaurirsi in un post su Facebook.
Qui sotto, in ordine sparso, alcune istantanee degli ultimi giorni: un selfie infelice, una foto in posa mal riuscita, ed alcuni scatti con i miei nuovi amici from Lesbo eh sì… qualcuno ha anche quattro zampe!