El dia del Amigo

Ieri era el dia del Amigo, il giorno dell’amicizia qui in America Latina. Io l’ho festeggiato all’interno della Capilla Virgen del Rosario, quella dove c’è la statua di Santiago, che per l’occasione si è trovata sommersa di popcorn, caramelle e chupachups (e per fortuna che il mio amico devoto della sera prima non c’era!).

Accanto all’altare è stata posizionata la macchina per fare lo zucchero filato, i banchi della cappella sono stati messi ai lati, e lo spazio è stato diviso in sei postazioni, ognuna predisposta per altrettanti giochi.

In posti come questo le piccole chiese, le Capillas (non mi convince la traduzione “Cappella”) assumono un ruolo cruciale, sono spazi vitali, ed ecco che da luogo di culto si trasformano in uno spazio per le attività ricreative, in una tavola imbandita dove mangiare tutti insieme, anche all’occorrenza in un mercato dove sulle panche vengono riversati vestiti e scarpe usate, per il mercatino della domenica.

L’attività di ieri pomeriggio era, per la precisione, quella di un gruppo di volontarie e operatrici sociali, che ogni sabato accolgono dei ragazzi disabili e li intrattengono dal pranzo fino al tardo pomeriggio. E’ stato bello stare con loro, aiutarle nella preparazione delle varie attività (io nello specifico ho realizzato dei cartoncini con delle forme per il gioco del Memory), condividere il pranzo (una polenta deliziosa) e vedere piano piano realizzarsi tutti i giochi pianificati. I ragazzi erano contenti: avevano diverse età, diversi handicap, ma erano molto affiatati tra loro e tutti - ognuno a modo suo - hanno partecipato alle varie attività, non tirandosi indietro ed uscendone entusiasti. Avere un figlio portatore di handicap è un’esperienza che ti cambia la vita, in ogni parte del mondo, ma in un contesto come questo, con i servizi carenti, le barriere architettoniche imponenti, ed alcune strade inaccessibili per la sedia a rotelle (e per chi ha problemi di deambulazione), è veramente una battaglia da combattere senza perdere un colpo.

La Villa31 è divisa in aree, la maggior parte delle quali si caratterizzano per la presenza di precise comunità. E se la Cappilla del Rosario è un punto di riferimento per i boliviani, quella di Santa Librada sorge al centro del quartiere paraguayano. E’ lì che mi sono diretta alla fine delle attività di giochi.

“Oggi si festeggia Santa Librada, sono settimane che il quartiere si prepara a questo evento, entrerai nel vivo della comunità questa sera, cucineranno e mangeranno tutti insieme per strada, vedrai un grande spirito di comunità”, mi aveva detto Blanca la mattina e, ancora una volta, le sue parole sono state provvidenziali.

Prima dei festeggiamenti c’era la messa, prevista per le 20. Tutti erano emozionati, la maggior parte vestiti a festa: c’erano due battesimi, 12 cresime e 5 o 6 comunioni. E poi c’era la benedizione. A presenziare, oltre ai quattro sacerdoti della Villa c’era anche il Vescovo della Diocesi di Buenos Aires, venuto per l’occasione, che è stato accolto da una standing ovation.

La cappella è piccolina, la quantità di gente che voleva entrarvi abnorme, e così sono stati fatti dei tetris mai visti per creare un equilibrio tra panche, sedie di plastica, e chi doveva stare in piedi senza però disturbare quelli seduti.

Devo dire che sono anche un po' folli, per non parlare delle richieste, le più assurde, come quando, alla fine della messa (durata quasi due ore), arrivati all’atto di cresimare, una signora chiede a me e a Ines se potevamo salire sopra (visto che eravamo sedute sulla scaletta a chiocciola), e passargli le sedie. Fin qui nulla di strano, mi direte, e invece c’è un piccolo particolare: bisognava “buttargliele” dalla finestra, visto che non si poteva interrompere quel momento tanto solenne con il Vescovo! Io mi sono svincolata fingendo di non capire la richiesta (a volte l’essere straniera ha dei vantaggi), Ines aveva uno sguardo tra l’allibito ed il rassegnato, ma non poteva far niente per opporsi. Si è alzata, è salita su, l’ho vista prendere le sedie (quelle di legno pieghevoli) , poi ho perso l’angolo visuale, ed ho sentito dei rumori dall’esterno. Poi dei colpi. In un primo momento mi sono spaventata, ma subito dopo ho tirato un sospiro di sollievo: erano scoppiati alcuni palloncini bianchi e gialli che avevamo attaccato all’esterno. Beh, direi che ci è andata di lusso, qualcuno poteva finire tranquillamente all’ospedale se veniva colpito in testa da una sedia di legno volante, invece i palloncini sono stati sacrificati per una giusta causa!

Alla fine della messa hanno aperto le danze del cibo. C’era questa tavolata lunga con una tovaglia viola a stile floreale, sedie da ambo i lati, e un tam tam di persone che passava bicchieri, posate, tovaglioli, e i piatti stracolmi: riso condito, chorizo (salsiccia), carne, pollo, e un quadrato di torta come dessert.

Ho finalmente assaggiato la Zopa, di cui ho sentito parlare dal mio arrivo. E’ un piatto tipico del Paraguay, credevo che si trattasse di una zuppa, ed invece è una torta salata fatta con cipolle, carne e qualcos’altro.

Ancora una volta ho avuto la sensazione di provenire da un paese che è rimasto indietro in quanto a senso di comunità.

Nelle nostre case, ormai, siamo sempre più chiusi. Io sono due anni che vivo in un appartamento di un palazzina a quattro piani, ad esempio, e con i miei vicini di casa non sono mai andata oltre il buongiorno e buonasera.
Quanto stiamo perdendo in termini di rapporti umani? E perché? Da dove viene tutta questa chiusura? Non può essere solo dei social network la colpa, perché i vari Facebook e Whatsapp esistono anche qui, ma non precludono la dimensione umana dei rapporti.

Sono andata via dopo le 23, e ancora c’era l’asado a cuocere sul barbecue, delle persone che aspettavano di cenare, la musica a pieno regime.



Ecco, siamo giunti al rientro. Credo che dedicherò un post specifico ai miei goffi spostamenti, alla mia totale incapacità di camminare nel fango. Ma vi basti sapere che anche ieri sono uscita indennne, tutta intera e senza finire con il sedere a terra, da una camminata di oltre mezz’ora. Non ero sola, ma in ottima compagnia: i quattro sacerdoti della Villa, incluso il Vescovo.

Io rimanevo sempre indietro, e il Vescovo – credo meramente per un atto di gentilezza – ha finto di portare il mio passo. Mi ha chiesto un po’ del mio lavoro, mi ha raccontato del suo. Mi parlava dell’India, dell’opera delle suore di Madre Teresa, mi faceva domande sui paesi che io avevo visitato. E mi dava la mano, da perfetto cavaliere, per attraversare i vari sentieri quando non c’erano muri o lamiere su cui io trovavo appoggio. “Sono stato a Roma da poco – mi ha detto quasi alla fine della passeggiata – vado spesso a trovare Francesco”.

Insomma, ho mangiato ogni ben di Dio quest’oggi, e sulla strada del rientro sono rimasta in equilibrio nel fango grazie al provvidenziale aiuto di un cavaliere, vescovo, amico del Papa. Direi non male, come bottino quotidiano, non credete?

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